Francesca Dambruoso in abbigliamento da trekking alpino impegnata in un percorso

Un viaggio in Brasile con la parrocchia fatto durante l’ultimo anno di liceo ha portato Francesca Dambruoso a orientarsi verso le professioni mediche. Il primo test d’ingresso non superato non l’ha scoraggiata e, al secondo tentativo, l’alumna Univr è riuscita a entrare a Medicina e chirurgia all’Università di Verona. È proprio qui che verrà a contatto con Medici Senza Frontiere, l’organizzazione internazionale alla quale ha deciso di unirsi e che la sta portando in diverse parti del mondo a prestare assistenza medica. Con il desiderio di chiudere un cerchio…

Ciao Francesca, parlaci un po’ del tuo percorso di studi.

A Verona ho frequentato il liceo scientifico. Giunta al quinto anno, non avevo ancora le idee chiare su cosa fare. Poi si presentò l’occasione di andare con il gruppo della parrocchia di San Massimo – il quartiere dove abitavo all’epoca – in Brasile per un viaggio organizzato di due settimane con l’obiettivo di visitare diverse realtà perlopiù missionarie. Per me è stato un viaggio molto significativo perché ho avuto la possibilità di toccare con mano la realtà delle favela: un’esperienza che mi colpii molto, tanto da pensare che avrei voluto tornarci un giorno. Tra me e me mi dissi che sarebbe stato bello tornare, anche se prima avrei dovuto acquisire delle competenze… al tempo non sapevo fare ancora nulla dal punto di vista professionale.

Così iniziai a orientarmi verso Medicina e a prepararmi per il test d’ingresso, che però non passai al primo tentativo. Mi iscrissi così a Farmacia, che frequentai sempre con l’obiettivo fisso di entrare a Medicina. Giunta al secondo anno, ritentai il test e questa volta lo passai senza problemi.

Negli anni universitari, oltre a portare avanti i miei studi, ho sempre praticato sport che è una delle altre mie grandi passioni, non l’ho mai lasciato. Praticavo atletica leggera e questo ha influenzato anche la scelta della specializzazione post laurea. Dopo la laurea in Medicina, infatti, scelsi di proseguire studiando fisiatria nella Scuola di specializzazione in Medicina fisica e riabilitativa.

Come è avvenuto il tuo avvicinamento a Medici Senza Frontiere?

Durante gli ultimi anni di specializzazione ho conosciuto Medici Senza Frontiere, tra l’altro proprio grazie a un incontro all’Università di Verona dove a parlare c’erano un’ostetrica e il gruppo di volontari di Verona. In quell’occasione, quella frase che mi ero detta tra me e me in Brasile era un po’ tornata nella testa. Così, dopo essermi informata sul loro sito web, decisi di candidarmi. Mi risposero che, essendo ancora specializzanda, non mi avrebbero preso subito – prima avrei dovuto fare un po’ di esperienza – ma che non avrei dovuto demordere e di riprovare più avanti.

Così iniziai a lavorare come medico volontario per Rafiki, un’associazione di Mestre composta da pediatri che si occupano però anche di medicina generale. Avevano un progetto in Kenya e quindi per tre anni andai là periodicamente per due o tre settimane, il tutto durante la scuola di specializzazione. È stato bello fare volontariato in un ambulatorio generico disperso in mezzo alla savana. È stata la premessa che mi ha dato il là a entrare in Medici Senza Frontiere. Appena un anno dopo infatti, come promesso, riprovai a mandare la mia candidatura a Msf, e questa volta fui ammessa in un protocollo di selezione che ho poi fatto online e di persona, al termine della quale sono stata messa in lista per partire.  

Nel frattempo, io proseguivo con il mio percorso: metà degli anni di specializzazione li passai all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, per poi giungere a lavorare nel reparto riabilitativo dell’ospedale di Volta Mantovana. Poi, nel 2016, arrivò la proposta da parte di Medici Senza Frontiere di entrare a far parte di un team per lavorare su un progetto sui migranti, della durata di cinque mesi, nell’isola di Lesbo, in Grecia. La cosa più difficile in quel periodo è stata provare a capire e comprendere il perché in Europa ci fosse una situazione di questo tipo e cercare di accettarlo. Le persone che arrivavano a Lesbo provenivano dalla Siria e dal Medio Oriente e tanti di loro avevano una vita come la nostra

Francesca Dambruoso posa sorridente in piedi con la maglia di Medici Senza Frontiere

A quali altre missioni hai partecipato?

Di esperienze di questo tipo ne ho fatte quattro, lo scorso agosto sono partita per la Siria, dove mi trovo attualmente. Le altre sono state, oltre a Lesbo, al Cairo, in Iraq e a Palermo, sempre con progetti sui migranti. La più significativa è stata quello in Egitto perché ho trovato una situazione molto complicata: il progetto infatti era dedicato a migranti sopravvissuti alla tortura e alla violenza sessuale. Un’esperienza impegnativa anche dal punto di vista emotivo.

Cosa ti hanno trasmesso e cosa ti hanno insegnato queste esperienze?

Penso che queste esperienze per me siano state delle aperture mentali rispetto a quelle che sono tante realtà intorno a noi. Ti fanno vedere le cose da punti di vista diversi e rendere conto che ci sono difficoltà molto grosse per le quali spesso noi non riusciamo a dare una svolta. Quello che facciamo in realtà non porta a soluzioni: sono piccole gocce che, però, nel loro insieme possono fare qualcosa. È tutto ciò che è in nostro potere. Da una parte mi sento fortunata perché sono contenta di poter mettere a disposizione quello che so fare ma, dall’altra, avverto impotenza nel rendermi conto che quello che facciamo è relativo. Si vorrebbe sempre fare di più, però già quello che facciamo serve.

Francesca Dambruoso sorridente in primo piano insieme a due bambini durante una missione per Medici Senza Frontiere

A livello operativo, come lavorate e interagite nel luogo in cui vi trovate in missione?

Il personale internazionale di Medici Senza Frontiere è solo una piccola parte. L’organizzazione lavora moltissimo con i locali con i quali avviene una vera e propria integrazione professionale. La maggior parte sono medici, infermieri, psicologi, addetti alla logistica e altri professionisti del posto. Non è un’associazione che prevede solo personale sanitario ma ci sono anche altre figure, come ad esempio i mediatori culturali, che sono sempre presenti e non fanno solo da traduttori dall’inglese che parliamo io e i miei colleghi alla lingua locale, ma sono persone che conoscono anche la cultura del luogo. È una macchina molto complicata e che tiene conto di tante sfumature, altrimenti tutto ciò non sarebbe possibile.

Quindi pensi di continuare sempre con le missioni per Medici Senza Frontiere?

Assolutamente sì, è una cosa che fa parte di me, è sempre stato il mio sogno. La mia prima esperienza in missione fu molto toccante e mi confermò che era davvero questo ciò che avrei voluto fare nella mia vita, anche se nella consapevolezza che avrei dovuto conciliare anche altri aspetti. Lavorare all’Azienda Ospedaliera di Mantova, dove mi sono trasferita per via del mio compagno, mi permette di farlo. Sono molto grata alla mia azienda perché mi concede un’aspettativa lavorativa aziendale che non è mai semplice da ottenere nell’ambito del lavoro pubblico ed è tutt’altro che scontato.

Francesca Dambruoso seduta su un materassino insieme a due collaboratori durante una missione per Medici Senza Frontiere

E chissà che un giorno tu non posso tornare in Brasile per chiudere un cerchio…

Potrebbe essere, mi piacerebbe, il desiderio c’è!

 Tornando ai tuoi anni di studi, come hai vissuto il corso in Medicina che, come si sa, non è semplice?

Se tornassi indietro non saprei se sarei in grado di rifarlo (ride, nda). A me piaceva ma, come tanti altri corsi universitari, i primi due anni sono stati molto generali con materie come matematica e fisica che ho trovato un po’ complicate. Superato l’anno generico, cominci a occuparti delle cose che ti piacciono quindi si fa volentieri. Sono riuscita a portare avanti anche l’ambito sportivo e conseguire un master in Chirurgia tropicale e delle emergenze umanitarie, anche per apprendere nozioni che mi sarebbero tornate utili per la mia esperienza “sul campo”. Più che complicato, quello di Medicina è un percorso lungo, anche se fattibile se c’è la passione.

Cosa ti porti dietro dalla tua esperienza di studi?

Sicuramente da quegli anni mi porto le ore trascorse in biblioteca che ho conosciuto a memoria, ma anche le materie che mi sono piaciute di più, ossia sono quelle dove ho potuto fare tirocinio con persone, medici e personale appassionati e coinvolgenti. Invece, quelle che mi sono piaciute meno sono state quelle dove si veniva lasciati a sé stessi o non c’era una reale trasmissione di passione. Quest’ultimo aspetto credo sia da tenere a mente nel momento in cui abbiamo a che fare con gli studenti ora che quelli più grandi siamo noi.

Francesca Dambruoso con in braccio una bambina durante una missione per Medici Senza Frontiere

Parlaci anche del tuo lato sportivo, vedo che sei sempre molto attiva…

Lo sport è sempre stato la mia valvola di sfogo. Adesso pratico questa disciplina che si chiama Obstacles Course Race o OCR che è simile alle Spartan Race. Consiste in corse con degli ostacoli posizionati nel mezzo del percorso, come muri da scavalcare, sospensioni, trasporti e possono avere diverse distanze da percorrere: dalla Ninja, alla 100 metri – che è una gara molto veloce – fino alla 15 chilometri. Ho conosciuto questo sport abbastanza di recente, nel 2018, ma mi ha appassionato tantissimo perché sembra di essere al parco giochi. È uno sport che si sta sviluppando molto in Italia e io faccio parte della Federazione Italiana OCR che gestisce una sessantina di associazioni sportive dilettantistiche in tutta Italia.

Ho fatto competizioni abbastanza importanti ma, pian piano, mi sposterò più sulla parte organizzativa e gestionale, perché si fa fatica a fare tutto. Recentemente abbiamo aperto un campo di allenamento per una squadra a Mantova. Il campo era già aperto ma è cambiata la gestione e ce l’hanno affidato ormai tra anni fa – a me e a un altro gruppo di persone – così abbiamo fondato un’associazione sportiva dilettantistica che è in pratica un gruppo di amici. Si chiama Move On, mentre il campo, che si trova a Mantova Sud, si chiama Mantova OCR Park e viene utilizzato per gli allenamenti all’aperto.

Che consiglio daresti a chi studia e a chi si sta affacciando sul mondo del lavoro?

Credo che il messaggio sia di scegliere qualcosa che piace. Qualsiasi cammino si intraprenda è faticoso ma, col senno del poi, vale sempre la pena tenere duro e non fermarsi davanti a paure o fatiche, anche perché con gli anni diventa sempre più difficile iniziare percorsi di un certo tipo. Credo che in Italia siamo decisamente fortunati ad avere la possibilità di accedere alla formazione e ne dovremmo assolutamente fare tesoro. Ci sono sicuramente Paesi con percorsi formativi migliori, ma ci sono anche Paesi che queste possibilità non le offrono… per cui sfruttiamole!

Francesca Dambruoso in tenuta sportiva con la divisa della rappresentativa italiana a una gara di Obastacles Course Race

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