Marco Melegaro, un Alumno Univr nel mondo del giornalismo

Marco Melegaro, laureato Univr in Lettere moderne con una tesi sul linguaggio televisivo, dal 2003 lavora nella redazione di Sky Tg24. I suoi interessi spaziano dalla storia della televisione al mondo dello spettacolo. Oggi ci racconta il suo lavoro e il suo percorso professionale

Marco Melegaro, descriviti in poche parole.

Mi chiamo Marco Melegaro, sono nato a Verona il 15 febbraio 1963. Segno zodiacale, acquario. Nel mio CV c’è una laurea in Lettere moderne all’Università di Verona e una tesi sul linguaggio televisivo. Sono un giornalista e lavoro nella redazione di SkyTg24, dove ho seguito per anni il mondo dello spettacolo e ora lavoro nel coordinamento. Una professione che negli anni mi ha dato la possibilità di intervistare attori, registi e personaggi dello spettacolo, come l’attore Diego Abatantuono, il regista Mario Martone e il cantante Sting.

Ci racconti la tua esperienza all’Università di Verona?

La mia esperienza con Univr è cominciata alla facoltà di Lettere, alla quale mi sono iscritto dopo aver conseguito il diploma in Ragioneria. È stata una scelta per certi versi controcorrente: a dispetto di quanti mi dicevano che con una laurea in lettere non avrei trovato facilmente un lavoro, io ho trovato la mia strada proprio assecondando le mie passioni. L’Università per me è stata un’esperienza fondamentale dal punto di vista formativo. Ho avuto docenti che si sono rivelati determinanti per il mio percorso, così come alcuni insegnamenti, come filosofia delle religioni e antropologia culturale, che mi hanno davvero “aperto la mente”. Penso che il percorso formativo sia fondamentale poiché ti consente di sviluppare un pensiero critico con il quotidiano, con la TV e i social.

C’è poi il passaggio al mondo del lavoro…

Già ai tempi dell’università mi sono attivato per fare della mia passione, il giornalismo, una professione, inizialmente scrivendo discorsi per alcuni parlamentari veronesi, per quanto di politica non me ne sia mai occupato direttamente. Poi arrivò un contratto part-time da impiegato per una nota impresa: un impiego di ufficio che, seppur non nel settore del giornalismo, mi ha però permesso di dedicarmi anche alla mia passione, ricoprendo il ruolo di direttore per Trenta, un giornale universitario. Dopo diverse collaborazioni giornalistiche, sono approdato a Stream TV e infine a Sky. È a SkyTg24, il telegiornale di Sky, che dal 2003 ho potuto vivere in prima persona il passaggio dall’analogico al digitale, e l’arrivo rivoluzionario in Italia dell’All-news, un modello di informazione americano che mette al primo posto velocità della notizia e approfondimento.

Ci racconti la tua giornata tipo?

Le mie giornate sono caratterizzate da molto studio e molte relazioni. “Veloce” è un termine efficace per descrivere la mia giornata. Nel mio lavoro è fondamentale avere il quadro completo delle notizie del momento, e di cosa mandare in onda. Questa è di per se la grande sfida del giornalista: non perdere mai di vista la notizia. La mia giornata comincia con la lettura dei quotidiani (cartacei e online), perché è necessario essere sempre preparati sull’attualità. Il mio è un lavoro nel quale non si stacca mai completamente, non si riesce. È una professione che richiede un approfondimento continuo. Quando arrivo in redazione, una cosa è certa: non si occupa mai la stessa scrivania, perché bisogna sempre seguire la notizia in base ai colleghi disponibili in redazione. E poi c’è il lavoro su turni, anche di notte, ad esempio da mezzanotte alle sette del mattino, quando rimanere lucidi è più difficile ma fondamentale.

Come è nata la tua passione per il giornalismo?

Per essere un buon giornalista occorre essere curiosi: una caratteristica che non mi è mai mancata, assieme a una buona dose di timidezza. Eppure è proprio quando ti metti in gioco che hai la possibilità di far emergere la tua originalità. E così mi sono accostato per la prima volta, da giovanissimo, al giornalismo e al mondo della televisione. Quando da ragazzino vedevo delle telecamere in azione, non potevo trattenermi dall’essere curioso e dal chiedermi quale fosse il tema del servizio.

Che consigli ti senti di dare a chi vuole avvicinarsi al mondo del giornalismo?

Chi vuole fare del giornalismo la propria passione oggi può frequentare corsi di laurea, scuole di giornalismo o master specifici, ma penso che sia fondamentale fare anche le proprie esperienze sul campo. Ad esempio, attraverso i social – che oggi sono un grande aiuto nel nostro mondo – i giovani possono diventare “portatori di notizie”. I giovani che arrivano in redazione diventano protagonisti: iniziano con uno stage o una sostituzione estiva, spesso sono assunti per un anno e possono poi entrare a far parte della Redazione. Infine, non dimentichiamo che diventare giornalisti significa anche essere disposti a muoversi dal proprio luogo di origine e trasferirsi in altre città o Paesi. Personalmente, il mio percorso mi ha portato da Verona a Roma, per cui direi che è fondamentale avere una disponibilità a lasciare il proprio contesto di origine.


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Beatrice Manca, giornalista di moda e tendenze

Beatrice Manca, trentenne laureata in Editoria e Giornalismo, è giornalista professionista e docente. Scrive di moda, tendenze e questioni di genere.

Beatrice, descriviti in poche parole.

Sono Beatrice Manca, ho trent’anni, nel 2016 mi sono laureata in Editoria e Giornalismo all’Università di Verona, dopo una triennale conseguita a Pisa. Sono giornalista professionista e scrivo di moda, tendenze e questioni di genere. Ho un corso all’Accademia Costume e Moda in cui parlo di narrazioni social e questioni ambientali agli studenti.

Ci racconti com’è nata la tua passione per il giornalismo?

Scrivere è sempre stato il mio sogno. A casa mia i giornali ci sono sempre stati, ricordo fin da piccola, con piacere, mio nonno che ogni giorno leggeva il quotidiano. Ma è leggendo assiduamente i supplementi di cultura e i femminili che è nato il mio amore per il giornalismo e per le riviste.

Ci racconti com’è stato scegliere il percorso universitario?

Con un papà avvocato e una mamma medico, sembrava che il mio percorso universitario fosse in un qualche modo segnato. Io però volevo fare un lavoro creativo: per questo, devo dire, la scelta dell’università è stata piuttosto sofferta. Dovevo scegliere tra un percorso che mi avrebbe garantito un lavoro con delle sicurezze, e il lavoro che avrei davvero voluto fare. Allora ho scelto di iscrivermi a Lettere. Oggi sono giornalista professionista e scrivo per varie testate in tema di costume e società, un ambito dove si intrecciano arte, cultura e cinema. Ma non solo: scrivo anche di diritti, questioni di genere, ambiente. 

E l’ingresso nel mondo del lavoro?

Sono stata molto fortunata, perché dopo la laurea ho iniziato a lavorare fin da subito. Ora sono freelance, ma prima ho fatto diverse esperienze da dipendente. Per quasi tre anni ho lavorato per Fanpage.it, poi ho deciso di fare il salto verso la libera professione per conciliare insegnamento e giornalismo. Grazie alla vincita di una borsa di studio, infatti, ho potuto frequentare per un semestre l’Accademia Costume & Moda di Roma, che qualche anno dopo mi ha chiamata per dei laboratori con gli studenti. Ora collaboro, tra gli altri, con MANINTOWN, ilfattoquotidiano.it e il Foglio della Moda.

Qual è il sacrificio maggiore che si deve mettere in conto se si vuole intraprendere una carriera nel giornalismo?

Direi che nella fase iniziale è inevitabile affrontare il precariato diffuso, che ti fa sembrare che non inizierai mai a lavorare sul serio. Poi però non appena prendi il via, il lavoro rischia di fagocitarti: il mondo gira velocemente e tu devi girare con lui. Un periodo iniziale di precariato e di basse retribuzioni purtroppo spesso va messo in conto. Si fa giornalismo perché si ha la vocazione, ma non deve diventare volontariato puro, per la causa. A un certo punto è necessario mettere dei paletti. Il lavoro si paga, altrimenti è un hobby. Fondamentale poi è investire molto in se stessi fin dall’inizio e, porsi degli obiettivi o dei limiti: quanto siamo disposti a lavorare anche a poco ma per fare esperienza?


Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia agenda è davvero imprevedibile e spesso sono fuori casa, computer in spalla, per seguire eventi, conferenze, festival, o per le interviste. Va detto che la vita sociale è una grande fetta della vita del giornalista: specialmente nel mio ambito, andare a feste, cene ed eventi è fondamentale per crearsi una rete di rapporti professionali. Quando posso, lavoro nello spazio co-working della redazione, oppure lavoro da casa. In generale, dalle 7 alle 8 di mattina mi prendo sempre un’ora per capire cosa succede nel mondo e per informarmi – la cosiddetta rassegna stampa – mentre la sera invece mi concedo un’ora per leggere, anche (e soprattutto) per piacere. 

Come pensi sia cambiato il tuo lavoro negli ultimi anni?

Fino a quindici anni fare il giornalista significava trovare le notizie e scriverle bene. Ora le competenze da avere si sono moltiplicate: devi sapere fare foto e video, saper impaginare un testo per l’online, capire come usare i siti e i social sia come fonti, sia come mezzo di comunicazione per raccontare l’attualità. Oggi i social network sono ciò che erano una volta le piazze: se una volta ci si chiedeva “Cosa si dice al bar?”, oggi ci chiediamo “Di cosa si parla sui social?”

In che modo l’Università ti ha aiutato a costruire le skills necessarie a lavorare nel giornalismo?

Una delle esperienze più significative è quella che ho fatto a Fuori Aula Network, la radio dell’Università di Verona. È lì che ho lavorato al programma PopCorn, un format dedicato al cinema che conducevo insieme a Caterina Moser. Ed è lì che mi sono messa alla prova con l’ideazione di programmi, l’editing di audio, la registrazione… ho imparato un sacco di cose! E poi per me la radio universitaria era un piccolo mondo in cui chiunque avesse una buona idea poteva proporla e svilupparla.

Ti occupi soprattutto di spettacoli, costume e società. C’è un tema che ti sta particolarmente a cuore?


Forse la questione che mi sta più a cuore oggi è quella ambientale, che io seguo dal lato della moda sostenibile e che è anche uno dei focus dei miei corsi in Accademia. Sul lato ‘pop’, invece,
posso dire di essermi specializzata nella storia della famiglia reale inglese. Su Elisabetta II ho letto praticamente tutto, e ho seguito nel giro di pochi mesi sia il Giubileo del suo regno che i suoi funerali: situazioni nelle quali senti di avere avuto un posto in prima fila mentre la storia accadeva. Una mia collega mi ha perfino regalato come portafortuna la sua statuetta Funko Pop! 

Consigli da dare ai laureati?

Buttatevi: se volete davvero fare qualcosa, provateci. Per chi vuole fare il giornalista penso sia fondamentale avere flessibilità, capacità di essere autonomi e di avere sempre uno sguardo curioso sulle cose. Ricordatevi sempre che, in qualità di giornalisti, dobbiamo osservare da vicino la realtà di cui scriviamo, mantenendo però il giusto distacco.


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Il mio Expo Dubai: un incontro con mondi nuovi e diversi

“Da pochi giorni ho concluso la mia esperienza di stage ad Expo 2020 Dubai. Sono venuta a conoscenza del progetto grazie all’Università di Verona, che ha pubblicato il bando ad inizio 2021 e ho deciso di candidarmi e tentare la selezione., che richiedeva in particolare alte competenze linguistiche, preferibilmente precedenti esperienze all’estero ed una lettera motivazionale. 

Le ragioni principali che mi hanno spinto a candidarmi sono state la mia costante necessità di approcciarmi a mondi nuovi e diversi – ragione per cui in fondo ho scelto il percorso di studi con focus sulle relazioni internazionali – il desiderio di rappresentare il mio Paese e promuoverne la ripresa – in particolare dopo averlo visto lacerato dalla piaga Covid negli ultimi anni – e la necessità personale di imparare, crescere e sperimentare in un contesto mondiale. 

Le candidature si sono concluse con più di 8500 ragazzi e ad aprile 2021 sono uscite le graduatorie, dove ho scoperto di essere stata selezionata come ambasciatrice digitale insieme ad altri 59 studenti provenienti da tutta Italia. La formazione inizialmente è avvenuta in DAD per poi seguire con gli ultimi 15 giorni in presenza a Dubai, dal 1° ottobre 2021 è poi iniziata Expo e da lì anche il lavoro vero e proprio sul campo. 

I ruoli principali che ho svolto sono stati: la preparazione dello storytelling del padiglione, la gestione del percorso espositivo con tour guidati per ospiti nazionali ed internazionali, attività di public speaking e set on stage, l’organizzazione e partecipazione ad eventi e la collaborazione con diverse funzioni del commissariato tra cui la funzione ‘institutional’ che si occupa della gestione degli eventi internazionali e del contatto con tutte le istituzioni italiane e non aderenti ad Expo e la funzione ‘business’ che riguarda la gestione degli sponsor, partner e stakeholder del padiglione Italia. 

Questa esperienza mi ha arricchito sia dal punto di vista personale che professionale: mi ha permesso di conoscere e mettere in pratica le lingue che ho studiato, relazionarmi con nuove persone e culture oltre che venire a contatto con il grande mondo degli scambi internazionali.  Ho avuto modo di capire le logiche di collaborazione economica, sociale e politica, apprendere protocolli e procedure internazionali, aver voce in meeting internazionali e soprattutto promuovere il mio Paese all’estero. 

Nonostante sia innegabile il fatto che l’esperienza sia stata totalizzante sia dal punto di vista fisico che mentale, raccomando a qualsiasi studente non solo di partecipare a quanti più progetti Erasmus possibili ma anche di tentare le traineeships all’estero, poiché venire in contatto con un mondo del lavoro diverso da quello italiano aiuta a sviluppare un maggior pensiero critico, imparare come mediare ed essere tolleranti, capire quali siano le vere competenze da acquisire e soprattutto capire come fare la differenza sia nella propria vita personale che nella futura carriera lavorativa. “

Elisa, studentessa di Lingue per la Comunicazione Turistica e Commerciale 
Instagram:@e.isonni 

Computer grafica: dalla mia passione alla “Miglior tesi magistrale”

“Quando il relatore mi propose l’argomento della mia tesi magistrale, ne fui subito entusiasta. Il principale motivo per cui mi ero iscritto al corso di laurea in Ingegneria e Scienze informatiche era stato proprio quello di poter lavorare in ambito di Computer grafica, una disciplina affascinante. Una volta trovatomi verso la fine del mio percorso di studi, potevo finalmente affrontare un tema di ricerca recente in quel settore: l’inverse spectral geometry. Il mio obbiettivo era quello di generare un qualsiasi oggetto 3D a partire dal suo “suono”, come per esempio la forma di un tamburo partendo dal semplice suono emesso dallo strumento.

Dopo una prima sessione di brainstorming con il relatore e il correlatore, iniziai subito a lavorare agli esperimenti carico di aspettative. Collezionai i dati su cui testare il mio metodo, definii il modello di rete neurale necessario a risolvere il problema, scrissi il programma per eseguire gli esperimenti e infine li feci partire.

Non sempre i risultati ottenuti erano quelli sperati, ma grazie al supporto del mio relatore e correlatore e a una buona dose di volontà riuscii a ottenere quello che volevamo.

Una volta terminati gli esperimenti, passai alla parte per me più noiosa e meno emozionante: la stesura su carta del frutto dei miei mesi di studio. Alla fine completai il lavoro con il titolo: “Data-driven inverse spectral geometry: learning to generate shapes from multi spectra”.

Essere arrivato alla fine del mio percorso di studi universitari con una tesi di cui andare fiero, era per me già un traguardo enorme; rappresentava la ricompensa di tutte le fatiche passate durante i precedenti anni di studio ed esami. Quando poi, 3 mesi dopo la proclamazione della mia laurea, ricevetti per email la notizia di aver ottenuto il premio “Matteo Dellepiane” per la miglior tesi magistrale in Computer grafica, feci fatica a crederci. Avevo inviato la candidatura qualche giorno dopo il conseguimento del titolo, sotto consiglio del mio relatore e del mio correlatore, senza però troppe speranze. Invece, i miei sforzi vennero apprezzati anche dalla comunità di Computer Grafica Italiana. Questo è per me il miglior riconoscimento mai ottenuto.

E anche dopo aver presentato la mia tesi durante la premiazione di STAG 2021, ancora non me ne rendo conto.

Riguardando il percorso che mi ha portato a questo momento di profondo orgoglio, provo molta gratitudine nei confronti delle persone che mi hanno sostenuto durante il mio percorso di studi, dalla mia famiglia e amici al mio relatore e correlatore. Spero che questo possa essere per me l’inizio di un produttivo percorso di ricerca in quella che è sempre stata la mia compagna di viaggio: la Computer grafica”.

Marco, laureato in Ingegneria e Scienze informatiche

Instagram: @mpek639

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione

“Sono Anna Polinari e sono una studentessa dell’Università di Verona, ma nella mia vita non c’è solo lo studio.

Pratico atletica leggera da 13 anni, all’inizio era solo un gioco, ma dopo i primi risultati a livello nazionale questo sport è diventato parte integrante della mia quotidianità.

Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di partecipare ad un’olimpiade, ma ero consapevole di quanto duro lavoro e sacrificio si nasconde dietro competizioni di così alto livello e non sapevo se ne sarei mai stata realmente in grado.

Crescendo però, la ragazzina tenace e determinata che era in me ha conquistato i primi podi ai campionati nazionali e varie convocazioni in maglia azzurra.

Nel 2021 – un anno pieno di soddisfazioni, tra il titolo italiano nei 400 m promesse, un buon piazzamento ai Campionati Italiani assoluti e un buon tempo cronometrico – quella convocazione ai giochi olimpici non sembrava più una cosa astratta.

Ero ad allenamento e stavo per cominciare uno dei miei soliti lavori di corsa quando il mio allenatore Fabio Lotti cominciò ad urlare “Anna sei stata convocata!”: la convocazione ufficiale per la staffetta 4x400m era arrivata e poter condividere la gioia del momento con i miei compagni di allenamento e il mio coach è stato magico.

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione mai vista.

Anche se non ho potuto correre la staffetta, in quanto riserva, il mio cuore e la mia testa erano in pista con le mie compagne. E le emozioni non sono mancate. La squadra italiana ha fatto cose eccezionali e, in particolare, l’atletica ha conquistato ben cinque ori. Questi risultati mi danno la consapevolezza che tutto è possibile e io ho ancora tanto da dimostrare… e non vedo l’ora di farlo”.

Anna, studentessa di Scienze delle attività motorie e sportive
Instagram: @annapolinari

Ho voluto osare e sono partita per un Dottorato a Oulu, in Finlandia

“Mi chiamo Chiara, ho 26 anni e il 12 marzo mi sono laureata in Molecular and Medical Biotechnology. Ottenere la laurea magistrale rappresenta un grande traguardo, ma come tutte le mete, una volta raggiunte, porta con sé un profondo senso di incertezza per il futuro. Decidere che strada intraprendere è difficile, specialmente in questo periodo storico governato da una pandemia brutale e capricciosa.

Nonostante ciò, ho sentito la necessità di osare, farmi beffa della situazione e iniziare il dottorato in un altro Paese. Grazie all’Università di Verona avevo già avuto un’esperienza all’estero, trascorrendo un semestre di scambio in Giappone, nella bellissima Kyoto e studiando al Kyoto Institute of Technology. È stata questa la scintilla che mi ha spinto a cercare un dottorato all’estero, che mi ha dato la forza. Attenzione, non dico con questo che un’esperienza all’estero vi renderà più sicuri di voi e che poi viaggiare e trasferirsi sia tutto rose e fiori. Al contrario, è un percorso pieno di insidie e richiede capacità di adattamento e sacrifici. Nonostante ciò, studiare presso l’Università di Verona mi ha fornito un’ottima formazione e base da cui partire, specialmente perché l’intero corso di Molecular and Medical Biotechnology è tenuto in inglese. La tesi magistrale che ho svolto presso il laboratorio di Biomacromolecular Chemistry è stata essenziale per ottenere la mia attuale posizione tra 90 candidati e per questo sono estremamente grata.  

Ora lavoro presso il gruppo di Protein and Structural Biology dell’Università di Oulu, città della Finlandia settentrionale, a ridosso del circolo polare artico. Oulu è una città tecnologica, dove la ricerca procede a passi veloci, ma allo stesso tempo è un’oasi immersa nella natura. La gente è rilassata e passa il tempo libero nei parchi, in spiaggia o andando in bicicletta. La mia ricerca mi sta dando tante soddisfazioni e sono contenta di aver avuto il coraggio di arrivare fino a qui. Non per niente si dice che la fortuna aiuta gli audaci!”

Chiara, laureata in Molecular and Medical Biotechnology
Instagram: @chii.ra

Il mio Erasmus in Finlandia con il Covid: una vittoria indelebile

“Allora, cosa ti porti a casa da questa esperienza?”. Era questa la domanda che, durante l’ultima settimana del mio Erasmus, circolava incessantemente negli appartamenti, nei corridoi dei palazzi e negli spazi aperti di Kortepohja, il famoso quartiere che ospitava la maggior parte dei ragazzi che avevano scelto la città finlandese di Jyväskylä come meta del loro viaggio-studio. La questione non trovava facile risposta: le consapevolezze e le emozioni che sollevava erano parecchie e quasi inesprimibili a parole. Eppure, io non avevo dubbi circa l’insegnamento più prezioso che quei cinque mesi in Finlandia mi avevano trasmesso e che sarebbe rimasto con me per sempre: se si ha la forza di guardare in maniera diversa alle cadute che inevitabilmente si presentano nel corso della vita, non solo esse possono essere superate, ma possono anche diventare occasioni di luminose risalite.

La mia avventura non iniziò nel migliore dei modi: dopo tre settimane dall’arrivo nell’affascinante Paese nordico e dieci giorni di quarantena, in una fase oscillante tra ambientamento e solitudine, contrassi il Coronavirus. L’evento rappresentò un problema non da poco: la quasi totalità degli studenti accettati si era ammalata e nessuno sapeva, a fronte di un inatteso focolaio di contagi scoppiato in città, quali sarebbero state le conseguenze di tale imprevisto; inoltre, l’infinito buio invernale, la mancanza di dimestichezza con i luoghi e con lo stile di vita, il non avere ancora attorno persone fidate su cui contare e da cui poter ricevere aiuto, fomentavano il senso di disorientamento e preoccupazione. Sentivo dentro di me il peso di una profonda sconfitta: evidentemente, come molti giudicavano prima della mia partenza, avevo sbagliato a lasciare casa in un momento storico così delicato come quello dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

A fronte dell’angoscia che pervadeva le mie giornate in isolamento, pensai di rientrare in Italia non appena fossi guarita: sembrava questa la soluzione migliore, perché l’incerta atmosfera non consentiva di dare per scontata l’esistenza di un seguito positivo. Interrompere la faccenda sul nascere, sfuggendo in questo modo anche alle eventuali ulteriori sfide che si sarebbero prospettate

dopo la prima, rappresentava la via più comoda da imboccare; ma valeva davvero la pena lasciarsi atterrare dal primo ostacolo, per quanto arduo, e buttar via lo scenario di un periodo di vita e studio all’estero che tanto avevo desiderato? Conveniva rinunciare alla grande opportunità che l’Università di Verona mi aveva regalato, permettendomi di assaporare un pizzico di normalità e libertà negateci dalla pandemia? Capii che questa non sarebbe stata la mia scelta: volevo restare e affrontare la difficoltà, per ripartire poi con maggiore convinzione e sfruttare al massimo quell’esperienza. Ecco che la cupa e critica situazione sopraggiunta si rivelò essere una possibilità di autentica rinascita, una fertile occasione per il fiorire di potenzialità sopite in tempi di ordinarietà: solo grazie alle turbolenze in cui ero incappata, infatti, realizzai quanto fossi fortunata a poter svolgere il programma Erasmus nonostante tutto, e fui veramente pronta ad aprirmi e ad accogliere con entusiasmo ciò che mi attendeva. In effetti, una moltitudine di successi iniziarono successivamente a balenare per me: uscendo dalla mia zona di comfort e immergendomi completamente in un ambiente e in una cultura così diversi dai miei, potetti osservare fenomeni incredibili, come l’aurora boreale o il sole di mezzanotte, scoprire luoghi incantati, come gli innevati e silenziosi paesaggi della Lapponia, e provare attività elettrizzanti, come le immersioni post-sauna nel lago ghiacciato; strinsi intense amicizie e, misurandomi con diverse ed interessanti mentalità, imparai molto nel dialogo costante con l’altro; ebbi modo, per quanto riguarda l’aspetto universitario, di confrontarmi con materie e metodologie didattiche diverse, ricevendo freschi ed importanti stimoli che hanno contribuito ad ampliare la mia formazione.

Partire per l’Erasmus e rimanerci è stata quindi la decisione vincente. Devo ammettere, però, che questa non fu frutto soltanto dei miei pensieri: ad infondermi coraggio furono i miei cari, il Referente del Corso di Studi, la Referente alla Mobilità Internazionale di area filosofica e diversi docenti, i quali, insieme al personale dell’Ufficio per la Mobilità Internazionale, si prodigarono per supportarmi e tutelarmi, riflettendo assieme a me e rassicurando la mia famiglia. Desidero ringraziare sinceramente i miei professori, non solo per non avermi mai fatta sentire sola in questa sfortunata circostanza, ma anche per avermi motivava ad intraprendere un percorso di mobilità: anche con tutti gli inconvenienti del caso (anzi, soprattutto con questi), rifarei innumerevoli volte questa esperienza, perché, facendomi oltrepassare pregiudizi e paure, mi ha permesso di incontrare nuove e ricche realtà, di conoscere più a fondo me stessa e di crescere sotto parecchi punti di vista. Dirò qualcosa di scontato, ma in cui credo fermamente: l’Erasmus ti cambia la vita!”

Lucia, studentessa di Scienze Filosofiche
Instagram: @squillantelucia

La filosofia per i bambini: aspetti essenziali per il ben-essere di ciascuno

“Mi chiamo Sara, ho 36 anni e a dicembre scorso mi sono laureata in Scienze della Formazione Primaria con una tesi intitolata “Philosophy for Children: una pratica per la Comunità di Ricerca nella scuola primaria”. Dire in poche parole cosa sia la Philosophy for Children non è cosa facile. La P4C è stata definita una “forma di vita”, unica e indicibile, un luogo da abitare quindi più che un oggetto da descrivere. Per questo ritengo più facile raccontare cosa sia stata questa esperienza formativa.

Innanzitutto, la Philosophy for Children rappresenta per me un approccio per curare aspetti che considero essenziali nella vita e nel ben-essere di ciascuno: l’empatia, la padronanza delle emozioni, la loro espressione, la capacità di credere in sé, di gestire le relazioni, l’amore e l’affetto. Per chi come me ha potuto incontrare e conoscere il mondo dell’infanzia sa come questi valori influenzino enormemente la crescita e gli apprendimenti. Le strade della mia vita mi hanno condotta in diversi modi alla vicinanza con bambini e adolescenti: durante l’anno di servizio civile, all’interno di associazioni di volontariato e nel mio lavoro come educatrice in una comunità familiare. Da queste esperienze ho imparato ad apprezzare il valore di un contesto di cura come motore di cambiamento individuale; la centralità della condivisione e del dialogo, come gioco a somma positiva; l’importanza di offrire ai bambini competenze autonome, critiche, riflessive. Negli anni, ho maturato la consapevolezza di voler dedicarmi all’insegnamento, riconoscendo l’importanza della figura del maestro nella vita del bambino, la sua vicinanza prolungata nelle giornate e negli anni cruciali per lo sviluppo. Fu proprio nel percorso di studi di Scienze della Formazione Primaria che conobbi il metodo della Philosophy for Children, dell’americano Matthew Lipman. Da subito mi sono scoperta affine al pensiero di questo autore, che spese la sua vita a impostare un innovativo curricolo scolastico. Ripensando con commozione ai momenti di convivialità trascorsi con i giovani, mi chiedevo se non avessi, in piccola parte, praticato anch’io la P4C, sognando come, forse, la passione dell’autore, raccolto nello studio della sua casa di Montclair, fosse stata simile alla mia. Così, iniziai le mie ricerche, partecipando ad alcune sessioni di P4C con adulti, nel contesto universitario padovano, e soprattutto con bambini, in una scuola primaria di Verona. Quello che osservavo era un potente strumento che garantisce pari opportunità all’interno del gruppo nell’esposizione delle proprie idee, una tecnica per sviluppare competenze espressive e relazionali, che favorisce i momenti di riflessione e le situazioni comunicative autentiche. Il dialogo maieutico ispirato a Socrate costituisce l’attività centrale di una sessione di P4C, che può diventare quindi il luogo dove i bambini interiorizzano l’etica del dialogo, imparando a pensare con la propria testa, a ragionare criticamente e creativamente. Il bambino che cresce e si forma in un contesto di democraticità non farà che riproporre lo stesso stile relazionale e comunicativo nella propria vita.

Nello scegliere l’argomento di tesi decisi di seguire il mio cuore, piuttosto che ragionare su quale professore fosse più disponibile, o di fare considerazioni pragmatiche sulle tempistiche di laurea. Ciò che contava era indagare un argomento di interesse, fare qualcosa che mi coinvolgesse e appassionasse. Una scelta che risultò condizionante nel determinare il tipo di insegnante che avrei voluto essere. Fu infatti durante il tirocinio di tesi sulla P4C che incontrai e lavorai assieme alla tutor Cosetta, una maestra motivata e scatenata che è per me modello di riferimento umano oltre che professionale. La sua carriera mi ha fatto capire come la P4C rappresenti un programma di formazione in primis per gli insegnanti coinvolti, un’occasione per ribaltare le modalità di conduzione frontale delle lezioni, la tanto obsoleta “trasmissività”. La scuola del terzo millennio necessita di riforme che infrangano in profondità vecchi e impliciti paradigmi. La P4C rappresenta un modo di apprendere circolare, democratico, collaborativo e co-costruito. Rappresenta uno “stile di vita” improntato alla ricerca e alla riflessività, che si fanno habitus del docente all’interno delle quotidiane azioni didattiche.

Ancora, il ruolo della P4C è stato estremamente valevole all’interno della Didattica a Distanza. Il setting digitale ha portato la P4C dentro alle case, nelle cucine e nelle camerette degli alunni. In un momento così tragico come quello della pandemia, che i bambini spesso hanno vissuto silenziosamente, la P4C ha rappresentato per loro uno spazio efficace di ascolto attivo e di auto-espressione, uno strumento per mantenere connessi gli alunni e le loro maestre, in uno spazio di dialogo e di cura, di rispetto e di comunione.

Frequentare il corso di SFP è stata una sfida immane: 6 anni di studi, tirocini sfiancanti, confronti, riflessioni sulla pratica di questo lavoro e su di me come persona. Il tutto continuando a lavorare nel sociale. La soddisfazione maggiore può ben dirsi quella di essere giunta al termine di un percorso tanto impegnativo. Una strada imboccata con leggerezza e quasi per sfizio, che ha condizionato in modo prepotente il mio futuro, così come, a volte, gli eventi più banali nelle nostre vite sono quelli che le influenzano maggiormente. Grazie a questa tesi di laurea ora ho vinto un concorso nazionale indetto dal CRIF, il Centro di Ricerca sull’indagine filosofica, che mi dà accesso ad una formazione estiva presso una “scuola di pratica filosofica”. Non posso non chiedermi quali strade questa esperienza ancora mi aprirà, come potrò spendere queste competenze. Nella vita facciamo tante esperienze, ciascuna colorata di sfumature calde o fredde, tenui o accese, dai toni cupi o vivaci.

Ognuna di esse ci aiuta a rivelarci ciò che siamo stati o siamo o vorremmo essere. Ogni incontro, ogni scelta, ogni caso può apparire oscuro perché le sue conseguenze ci sono ignote. Ma la vita, così come la P4C, ci insegna ad abitare con coraggio questo spazio, perché è il luogo della consapevolezza e della responsabilità.

Sara, laureata in Scienze della Formazione Primaria

Un giro del mondo…. a piedi|

“Mi chiamo Nico, vicentino annata ‘93, ed otto mesi fa sono partito per realizzare il mio sogno: fare il giro del mondo a piedi attraverso quattro continenti, in un viaggio di quattro anni lungo 35 mila chilometri.

Dopo essere partito da Vicenza il 9 Agosto del 2020, ho camminato attraversato Pianura Padana, Appennino Tosco-Emiliano e costa ligure fino a giungere al confine francese. Da Ventimiglia sono passato in costa azzurra, proseguendo il viaggio lungo la riserva della Camargue ed il Canal du Midi, un canale fluviale navigabile che collega mar Mediterraneo ed oceano Atlantico. A seguire, Lourdes ed i Pirenei, una delle tappe più dure, a 1600 metri in mezzo ad una bufera di neve. Nonostante il freddo ed il vento, sono arrivato in Spagna, percorrendo il Cammino di Santiago fino a Leon, città che mi ha ospitato durante l’Erasmus del terzo anno di studi presso UniVR. L’ultimo tratto europeo è stata la Via de la Plata, altro cammino della rete di Santiago, che da Leon mi ha portato a Palos de la Frontera, città dalla quale mi sono imbarcato per le Canarie alla ricerca di un passaggio in barca per le Americhe.

Dopo un mese di ricerche, sono riuscito a trovare un passaggio a bordo di un catamarano di 12 metri, il Tata, assieme al capitano australiano e a un ragazzo polacco. La traversata atlantica si è rivelata molto più lunga del previsto a causa di una fascia di bonaccia insolita per la stagione degli Alisei. Solitamente, infatti, la navigazione si conclude in tre settimane; l’equipaggio del Tata, invece, è approdato a St. Lucía (Caraibi) dopo 33 giorni in mezzo all’Oceano, più di un mese senza alcun contatto con il resto del mondo. Siamo rimasti nei pressi dell’isola per due settimane, prima di salpare nuovamente verso nord e spostarci ad Antigua. Qui, tuttavia, l’equipaggio si è sciolto e ho deciso di proseguire da solo alla volta di Panama, dove ho coronato un altro piccolo ma significativo pezzo del mio cammino: collegare gli Oceani Atlantico e Pacifico camminando per tutto l’istmo di Panama. In questo modo, è come se il cammino interrotto in Spagna fosse ripartito, senza interruzioni, dall’altro lato del mondo.

La prossima tappa riparte da Quito, capitale dell’Ecuador, e mi impegnerà per tutto il 2021: per arrivare a Santiago del Cile ci vorranno infatti circa dieci mesi perché la distanza da percorrere è di più di 6500km.

Dal Cile mi imbarcherò nuovamente, stavolta per l’Australia, che attraverserò da sud a nord tagliando a metà gli spazi sconfinati di terra rossa – l’Outback – che riempiono l’enorme stato australe. Sarà poi la volta dell’Asia, dalla Malaysia alla Thailandia giungendo a Bangkok e da lì in Birmania ed India. Mi dirigerò in Bangladesh per poi tornare nel subcontinente indiano, a New Delhi, e successivamente in Pakistan proseguendo lungo la Karakorum Highway, strada che attraversa l’omonima catena montuosa e passa in Cina a 4.700 metri, il punto più alto dell’intera spedizione.  Dopo un mese di cammino in Cina sarà la volta del Kirghizistan, dove seguirò la Via della Seta attraverso Samarcanda, Bukhara fino al Turkmenistan, ed Iran. Dall’antica Persia raggiungerò le coste del Mar Caspio attraversando l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia fino a Costantinopoli, dove ritornerò in Europa passando dalla Grecia e poi ancora a piedi, attraverso i Balcani per tornare a Malo, casa.

CAMMINARE AI TEMPI DEL COVID

Ho attraversato tre stati europei che attualmente versano in difficile situazione. Scegliendo di partire ad agosto, tuttavia, le prime settimane sono state più semplici da affrontare. In particolar modo, Italia e Francia non avevano ancora imposto lockdown, quindi non è stato difficile attraversarle. L’uso della mascherina si imponeva all’arrivo nei centri abitati più grossi, ma adottando queste misure di sicurezza il viaggio è proseguito tranquillamente. Non sono mancati gli incontri, né l’ospitalità da parte di persone conosciute lungo il cammino. La situazione è peggiorata con l’arrivo in Spagna, ad ottobre, ed i primi lockdown locali. Lungo il Cammino di Santiago diverse strutture di ricezione erano chiuse e gli spazi comuni come le cucine non potevano essere utilizzati. Anche così, tuttavia, sono riuscito a proseguire, alternando le notti negli ostelli rimasti aperti a quelle in tenda e condividendo con i pellegrini lungo il percorso il tratto di cammino comune. Ad inizio novembre, con il peggiorare della situazione, le tappe sono diventate più lunghe, con l’obiettivo di avvicinarsi al porto di Palos per lasciare il continente prima di un’eventuale lockdown totale in Spagna. A Las Palmas la situazione era migliore e quando nel continente sono ritornati i lockdown totali, in occasione delle festività natalizie, mi trovavo ormai a bordo del Tata, in mezzo all’Oceano, a sperimentare un isolamento del tutto diverso. Le regole incontrate ai Caraibi cambiavano di stato in stato: c’è chi chiedeva il test all’ingresso, chi predisponeva una quarantena. Per ora, comunque, il viaggio è potuto proseguire senza grossi intoppi e guardo speranzoso al 2021 come l’anno in cui la situazione potrebbe cominciare a tornare alla normalità.

IL VIAGGIO

Il viaggio durerà quattro anni, in un percorso di 35.000 km che chiamo “Il viaggio da casa a casa”, ispirandomi liberamente al periodo del Grand Tour quando giovani ragazzi viaggiavano lungo l’Europa per accrescere le loro conoscenze e tornare in patria per condividerle. Il progetto si chiama PIEROAD, ovvero “Pie” dal piede del dialetto veneto e “Road” la strada internazionale che percorro.

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Nicolò, laureato in Economia aziendale
Instagram: @pieroad____

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