Valentina Garonzi, Alumna Univr e CEO di Diamante

Valentina Garonzi, alumna Univr, è stata recentemente inserita in due classifiche dalle riviste Forbes Italia e Fortune Italia che riuniscono i giovani innovatori del nostro Paese leader futuri nei rispettivi ambiti. Il suo percorso iniziato all’Università di Verona con la laurea in Economia aziendale l’ha portata al proficuo incontro con Diamante, la start-up nata come spin-off del Dipartimento di Biotecnologie del nostro ateneo, della quale oggi è CEO.

Come è stato il tuo percorso universitario e perché questa scelta?

Sono laureata in Economia aziendale con magistrale in Economia e legislazione d’impresa. Ho scelto questa facoltà perché mi ha sempre appassionato il mondo delle aziende. Alle superiori ho frequentato ragioneria, mi interessava quindi rimanere nell’ambito economico e ho scelto l’Università di Verona sia per le ottime referenze, che per la vicinanza territoriale. Il master in Management, invece, l’ho conseguito a Milano.

Come è stata l’esperienza universitaria? Cosa ti porti da quegli anni?

È stata un’esperienza ottima, ho scelto di fare l’università da frequentante perché ne avevo la possibilità e ritengo che questo abbia rappresentato un grande valore aggiunto: essere in aula con il docente, poter fare domande, interagire con i compagni e i professori ti dà qualcosa in più rispetto alla lezione online. Si era creato un ottimo gruppo di studio fatto di persone con le quali continuo ad avere relazioni e rapporti anche adesso che abbiamo terminato l’università. Possono essere d’aiuto anche nel mondo del lavoro. 

Parlaci un po’ di Diamante, spin-off dell’Università di Verona e azienda della quale sei oggi CEO.

Diamante – azienda nata nel 2016 come spin-off del Dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona – ha l’obiettivo di sviluppare e immettere nel mercato nuovi strumenti per la diagnosi delle malattie autoimmuni attraverso l’utilizzo delle piante, in un’ottica di ecosostenibilità. 

Il mio avvicinamento a questo ambito del quale, ovviamente, non sapevo molto studiando in tutt’altro settore, è stato durante il lavoro svolto per la tesi triennale. 
Scelsi di farla sulle start-up che, al tempo, era un argomento di cui si parlava ancora poco a Verona e in Italia. Per l’elaborato ho avuto l’opportunità di intervistare rappresentanti di tutti gli spin-off dell’Università di Verona e di altre start-up interessanti del territorio veronese, ma non solo.

Tra le diverse interviste, ho incontrato Linda Avesani, che poi è diventata mia collega: lei aveva avuto un’esperienza pregressa in uno spin-off che però non era riuscita a portare avanti. 

Mi era rimasta impressa questa sua storia così, due anni più tardi, compilando la tesi magistrale, Linda mi ha ricontattata perché avevo ottenuto ottimi risultati su un progetto di ricerca che stava seguendo. Non avendo le competenze economiche, ha chiesto a me se fossi interessata a sviluppare con lei un primo business plan e abbiamo iniziato a lavorarci. Nel frattempo, io ho continuato a fare colloqui, mi sono laureata e con questo business plan siamo arrivati terzi a Start Cup Veneto, una competition universitaria. Questo non è stato l’unico riconoscimento, abbiamo vinto anche altri premi in diverse altre competizioni e questo ci ha dato la forza di costituire l’azienda.

La tesi ha giocato quindi un ruolo cardine nella tua “scalata” nel mondo del lavoro.

La tesi è stato uno strumento importante per me per conoscere meglio il mondo delle start-up. In quella fase seguivo anche un’associazione di giovani imprenditori, quindi ero molto interessata a conoscere meglio quell’ambito. È stato un ponte per unire l’ambiente economico con quello biotecnologico, un connubio che ha dato il là a un’azienda. 

Come è stato far incontrare due mondi così diversi? 

È stato sfidante. Sono due mondi che non si parlano e con un background e un approccio completamente diversi. Io non avevo conoscenze nell’ambito biotecnologico ma nemmeno esperienza all’interno dell’ambito lavorativo a livello universitario, e una situazione analoga riguardava le mie colleghe. Abbiamo dovuto formarci a vicenda: io sull’ambito della ricerca e loro sulle dinamiche aziendali, è stato un percorso portato avanti insieme. 

È un consiglio che ti senti di dare quello di essere sempre flessibili nell’acquisizione di nuove competenze?

Lo vedo molto nella realtà delle start-up e aziende con le quale ho interagito. Il fatto di non avere una competenza determinata all’interno di una realtà professionale è complicato. Per esempio, quando manca la competenza economica interna e devi avvalerti di consulenti esterni non sempre ti puoi fidare. Riuscire a creare un team completo dal punto di vista delle competenze fin dall’inizio è di grande aiuto.

C’è qualcosa del tuo percorso universitario che ti ha condotto verso il fare impresa? 

Penso che ci siano molte possibilità offerte agli studenti: viene fornito un approccio su come funziona un’azienda durante le lezioni, non mancano le opportunità di stage e anche eventi come i Recruiting Day costituiscono un metodo di avvicinamento al mondo delle aziende.
L’idea di fare impresa è molto più presente tra le aule di Economia; pertanto, auspico che avvenga una contaminazione della parte scientifica da questo punto di vista, essendo tradizionalmente meno incline all’imprenditorialità. Inoltre, un’interazione maggiore tra i vari dipartimenti e tra gli studenti potrebbe portare molti frutti.

Come si svolge la tua giornata tipo e quali aspetti di appassionano di più della tua professione?

La giornata tipo per una persona che gestisce un’azienda non esiste. Ogni giorno è diverso con la sua pianificazione che può essere più standardizzata. Io mi occupo sia dei rapporti esterni, quindi per esempio la partecipazione agli eventi, le relazioni con i vari stakeholder, che della gestione delle emergenze e della pianificazione delle strategie interne, come la gestione delle risorse umane.

Quale consiglio daresti a chi studia?

Innanzitutto, di non darsi dei limiti e cercare di sfruttare il più possibile tutte le opportunità che l’università mette a disposizione, cercando di “contaminarsi”: se studi economia non pensare di rimanere solo in quell’ambito ma cerca di spaziare anche verso altre opportunità. Per chi vuole fare azienda, dico di puntare molto sulle persone del team e capire effettivamente con chi si può instaurare una collaborazione perché poi, nei momenti di difficoltà, le persone contano e fanno sicuramente la differenza. E poi, bisogna sempre provare a espandersi oltre i confini dell’Italia e parlare con persone che hanno prospettive e culture diverse. 

Recentemente hai ricevuto due importanti riconoscimenti. All’inserimento nella classifica stilata da Forbes Italia “Under 30 2024 – Science & Healthcare” sui talenti che stanno cambiando volto alla sanità e alla scienza, è seguita poi la nomina tra i “40under40” da Fortune Italia, che riunisce i giovani che stanno imprimendo un cambiamento significativo nei rispettivi settori al nostro Paese. Quali sensazioni hai provato?

Devo dire che hanno aiutato molto il morale. Sono riconoscimenti per l’attività sin qui svolta e per l’impegno profuso dal mio team. Questi riconoscimenti ci spingono a continuare a innovare e a lavorare verso nuovi traguardi.


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Maura Loi, lo sport e la ricerca del “benessere verde”

Maura Loi, dalla Sardegna, ha individuato in Verona la meta ideale per proseguire il suo percorso di studi. Dopo la laurea magistrale conseguita in Scienze motorie nel nostro ateneo, ha ottenuto un master e ora sta portando avanti il suo progetto di dottorato nell’ambito delle aree verdi nei contesti urbani e della loro relazione con il benessere psicofisico, senza però abbandonare la sua passione di sempre: il nuoto.

Come hai scelto questo percorso?

La scelta di Scienze motorie deriva dalla tanta passione per lo sport, che ho fin da piccola. Non ho praticato discipline ad alti livelli, ma mi ha sempre caratterizzato la costanza, sia nello sport che negli studi. Prima di tutto il nuoto: l’ho sempre praticato con passione. Una volta conclusa la mia carriera sportiva e iniziati gli studi universitari, sono passata dall’altra parte, a insegnarlo. Per quanto riguarda invece l’università, la triennale l’ho fatta a Cagliari, poi mi interessava proseguire il percorso focalizzandomi più sulla prestazione sportiva che sull’ambito delle preventive adattate, per cui mi sono trovata a dover scegliere e valutare diverse sedi. Tutto questo in un periodo complicato – l’estate 2020, post-lockdown – in cui spostarsi da una regione all’altra (o da un’isola al continente nel mio caso) per vedere da vicino le università e provare i test d’ingresso non era esattamente facile. 

Alla fine, sono arrivata qui a Verona: tornando indietro rifarei questa scelta altre mille volte. Al di là del percorso universitario, questa è una città che offre molto e, per quanto molto turistica e con una grande storia, rimane una città a misura d’uomo e con grande varietà. Qui non mancano mai gli stimoli, c’è sempre qualcosa da fare e da scoprire con tante iniziative e anche l’università fa in modo che lo studente rimanga sempre in contatto con quello che gli succede attorno. Inoltre, mi trovo bene a livello di collegamenti, sia interni alla città che verso l’esterno: una bella differenza per me, abituata a dover prendere aerei o navi per ogni spostamento! 

Lo sport aiuta nella vita di tutti i giorni così come nello studio?

Certamente, lo sport mi ha aiutato ad avere costanza. Ti puoi impegnare e allenare quanto vuoi ma poi magari arrivi alla gara e, oltre a competere con te stesso, devi competere con gli altri e considerare che esistono anche i fallimenti e che questi hanno diverse proporzioni. Nel nuoto, al di là del tempo che peggiora o migliora, hai la competizione con chi ti sta a fianco, i tempi limite per entrare in determinate competizioni. Sicuramente sotto questo profilo lo sport mi ha sempre aiutata a non fermarmi davanti a ostacoli o fallimenti, come un esame non passato o un voto che non era quello che mi sarei aspettata. 

Secondo me lo sport migliora anche i rapporti interpersonali: se lo pratichi sei più propenso ad aprirti agli altri e conoscere più persone. Per quanto il nuoto sia considerato uno sport individuale, per me non è stato così. Poi anche dopo, all’università, mi sono sempre sentita più spigliata nel fare nuove conoscenze e soprattutto arrivata qui a Verona, più o meno alla magistrale eravamo tutti ex atleti o comunque ex sportivi. Per me le migliori amicizie sono nate grazie allo sport e tramite interessi comuni.

Ora fai il dottorato. Come sei arrivata al tuo ambito di ricerca?

Sono al primo anno di Dottorato in Neuroscienze, Biomedicina e Movimento, il gruppo di ricerca per il quale lavoro è quello di Fisiologia dell’esercizio. La mia laurea magistrale è Scienze motorie ma nel mio progetto di dottorato mi sto occupando di tutt’altro. Il mio progetto è finanziato dai fondi PNRR e la tematica è la relazione tra il verde urbano e il benessere psicofisico. Il tema si allontana da quello che ho studiato in questi anni. Dal punto di vista pratico, soprattutto della raccolta dati, ho accumulato tanta esperienza durante gli anni di studio ma mi sto avvicinando a un mondo completamente nuovo. Sicuramente ci sarà anche una parte che riguarda l’attività fisica nelle aree verdi delle città, ma sto iniziando un percorso totalmente nuovo, devo ancora mettere tutti i mattoncini per costruirlo. Sono arrivata a questo progetto in quanto la professoressa che mi ha seguito per la tesi magistrale mi ha parlato di questa opportunità e io ero interessata a proseguire i miei studi con il percorso di dottorato. Per quanto non fosse esattamente in linea con il mio profilo e i miei studi, non mi sono preclusa niente. In fondo il dottorato è un periodo in cui si è ancora studenti ed è quindi un’occasione in più per imparare. 

Credi che sia un valore aggiunto questo studio trasversale di ambiti leggermente diversi tra loro come le Scienze motorie e le aree verdi come elemento di benessere psicofisico?

Mi sto rendendo conto che, al di là del bagaglio di conoscenza che una persona deve avere, probabilmente durante il dottorato serve tanta versatilità. Devi affrontare tante sfide, dall’organizzazione al problem solving, tutte cose che penso di essermi costruita negli anni e che mi stanno permettendo di approcciarmi a questo progetto. 

Il dottorato permette anche di fare un periodo all’estero, per il mio percorso è obbligatorio. Non ho mai fatto l’Erasmus durante la triennale e la magistrale, ma solo il traineeship l’anno scorso, una di quelle esperienze che ti aprono gli occhi e la mente. Mi sono pentita di non averlo fatto prima. Ora, come da progetto, mi aspetta un periodo a Barcellona, presso un istituto che si occupa della valutazione di salute e ambiente: è un gruppo di ricerca piuttosto avanzato che studia le aree verdi e come queste sono integrate nelle città. 

Descrivici la tua giornata tipo.


Arrivo a Scienze motorie verso le otto o otto e mezza, ho un ufficio che condivido con altri colleghi che svolgono il dottorato. Durante questo primo anno ho svolto attività prettamente da scrivania, davanti al computer che, devo ammetterlo, non è la mia attività preferita. Poi però, nel tardo pomeriggio, vado a lavorare in piscina. Un’attività che ho voluto mantenere pur facendo il dottorato, poiché mi permette di “staccare” veramente a fine giornata. Poi, avendo fatto nuoto per tanti anni, ho sempre apprezzato il fatto di poter trasmettere quello che ho fatto io in passato a qualcun altro. 

Le mie giornate sono piuttosto monotone ma questa è l’impostazione che ho. Per una persona abituata a muoversi tanto, dover stare alla scrivania a volte può risultare pesante ma mi sta aiutando tantissimo il fatto di condividere un ufficio con altre persone che stanno facendo il mio stesso percorso e quindi incontrano le tue stesse difficoltà. Si vive tutto assieme e questo aiuta moltissimo perché si condivide tutto: dai momenti più complessi ai piccoli successi che possono arrivare. 

Quale motivazione e consiglio daresti a chi vuole specializzarsi proseguendo con un dottorato o altri percorsi?

Io tra magistrale e dottorato ho fatto un master perché mi serviva un po’ per completare gli ultimi pezzi del puzzle per poi tentare un approccio al dottorato. Secondo me, alla base del fare ricerca ci deve essere sempre tanta curiosità, soprattutto nei periodi più “demotivanti”, che ci sono sempre. Ne ho passati tanti anche in questo primo anno di dottorato. Soprattutto nei primi anni di studio, si è troppo assillati dall’idea di essere eccellenti e doversi laureare in corso; infatti, mi sto rendendo conto ora che bisogna anche imparare ad accogliere e accettare i fallimenti, non possiamo essere sempre perfetti, solo che a volte a furia di rincorrere quell’eccellenza ci dimentichiamo che possiamo anche sbagliare. 

Sicuramente i periodi di crisi e di difficoltà arrivano per tutti: fa sempre bene secondo me tornare alle origini e pensare perché si è fatta una determinata scelta. Anche nei periodi più difficili cerco sempre di ricordarmi e pensare perché sto facendo questo, che cosa mi ha portato a questa scelta e mi focalizzo sulle cose che più mi piacciono di questo percorso e poi da lì cerco di trovare le energie per affrontare anche le parti più complesse. 

Veronica Ceradini, da Scienze motorie al Coni passando per la Nazionale di rugby

Veronica Ceradini ha un passato da studentessa di Scienze motorie all’Università di Verona e oggi è segretario regionale per il Coni a Bolzano. Prima dell’esperienza istituzionale, Veronica si è distinta per la sua carriera da rugbista che l’ha portata a vestire anche la tanto sognata maglia azzurra della Nazionale.

Ciao Veronica, parlaci un po’ di te…

Io vivo a Verona ma lavoro a Bolzano, sono segretario regionale per il Coni. Per lavoro mi sono dovuta spostare un po’ per l’Italia, da Verona a Padova, da Brescia a Mantova e poi a Bolzano; si può dire che ho girato abbastanza. A volte doversi muovere in continuazione mi pesa, ma credo che sia anche una delle maggiori opportunità di crescita perché tutto quello che è viaggio è sempre da accogliere in maniera positiva.
Sono stata giocatrice di rugby, ora invece di tennis. Sono convinta che, come nel lavoro, anche nello sport il cambiamento sia positivo.
Il mio percorso è partito con alcuni progetti sportivi quando ero a scuola ed è poi continuato con la laurea e il master all’Università di Verona. Un percorso che alla fine mi ha portato, un po’ per caso, a sedermi dietro una scrivania.

Praticare sport aiuta anche nel lavoro?

Sicuramente lo sport aiuta nei momenti difficili. Mi spiego meglio: lo stare in campo, qualsiasi sport tu faccia, ti abitua a una pressione. Qualcuno indica questa pressione come un privilegio ed è molto simile in campo quanto nella vita, nel lavoro, nello studio. La ricerca di quella pressione, che per gli sportivi è abbastanza normale, ti porta poi a migliorare sempre in tutti gli ambiti della vita. Non ti senti mai arrivato, ti senti sempre in tensione verso qualcosa di meglio. Quindi sì, lo sport influenza tantissimo gli altri ambiti.

Hai raggiunto anche risultati sportivi notevoli, parlacene un po’.

Sì, a casa ho qualche medaglia ma anche qualche maglia, di recente ne ho anche messa una in cornice. Sono stata fortunata ad avere avuto la possibilità di giocare in una squadra di alto livello a Venezia: un’esperienza impegnativa perché, come tutte le cose belle, richiede anche lavoro, ma sono stata ripagata dalla fortuna di aver vinto qualche campionato. Non sono mancate, certo, le difficoltà: ho dovuto superare un infortunio e tornare poi in campo, cercando di mantenere sempre uno spirito positivo con un occhio al mio grande obiettivo, cioè la maglia azzurra. Sono stata selezionata dalla Nazionale Italiana femminile di rugby nel 2004 per la prima volta e l’ho vissuta per l’ultima nel 2008, nella storica vittoria contro la Scozia al Sei Nazioni.

Come è stata la tua esperienza universitaria?

L’esperienza al liceo non mi era piaciuta tanto, mentre all’università ho trovato il mio ambiente. Noi a Scienze motorie eravamo un gruppo piccolo, quindi c’era anche tanto rapporto di convivenza tra compagni di corso. Con l’obbligo di presenza stavamo in università praticamente dalla mattina alla sera, era quindi importante organizzarsi per poter studiare. Questo vivere tutti insieme è stato un fattore molto positivo. Ricordo gli anni di studio come un bellissimo periodo, di crescita forte sia dal punto di vista organizzativo personale, sia dal punto di vista della conoscenza. Ho incontrato compagni di corso che lavorano oggi per realtà importanti, persone con obiettivi molto ambiziosi. Inoltre, l’università ci ha sempre messo a disposizione tutto il necessario per fare attività sportiva: spazi, palestre e strumentazioni tecniche.

Come mai questo percorso di studi?

Mi è sempre piaciuto lo sport, ne ho sempre praticato, di qualsiasi genere. Uno dei motivi che mi ha portato alla scelta del corso di laurea è stato sicuramente un insegnante delle medie che ho avuto. Aveva una passione pazzesca per l’insegnamento ai ragazzi e nel trasmettere la volontà di fare movimento, non tanto per diventare campioni, ma per portare chiunque a essere una persona attiva con un obiettivo e un impegno fisso da rispettare, seguendo la routine tipica di qualsiasi sport.

E perché proprio il rugby?

Sicuramente per un motivo di vicinanza. Infatti, a casa mia, San Pietro in Cariano, c’è una società storica di rugby. L’occasione è stata quella di un corso di rugby a scuola dove ho provato questo sport per la prima volta. Lo stesso pomeriggio andai al campo dove incontrai un allenatore sudafricano che all’epoca lavorava per quella società e mi affascinò il modo che aveva di gestire le persone in campo, di farle crescere, di insegnare. Così sono rimasta, ho fatto la mia prima stagione e poi ho preso il via.

C’è un aspetto del rugby che torna utile anche nella vita quotidiana?

Lo sport in genere ha questo fil rouge, cioè l’impegno per il conseguimento di un obiettivo. Nel rugby questo aspetto si manifesta nell’immediato perché ti fa collaborare con gli altri per andare avanti con la palla. È fondamentale essere a disposizione degli altri per andare nella stessa direzione, e questa penso sia un delle cose più belle. L’altro aspetto è sicuramente l’essere disposti al sacrificio per un fine: io scelgo di non avanzare più per permettere a te di andare avanti. Il rugby, da questo punto di vista, è un po’ una scuola di vita, nel senso che spesso nel mondo attuale si è concentrati più su sé stessi che sulla collettività. Accettare di perdere in prima persona qualcosa affinché la squadra guadagni è uno degli insegnamenti più profondi che ti porti via dal campo.

Come vedi il panorama rugbistico italiano?

Negli ultimi dieci anni questo sport ha avuto un boom di visibilità pazzesco in Italia, grazie alla trasmissione delle partite e agli investimenti fatti sulla comunicazione. Non a caso, adesso vedo una buona apertura. Quando uno sport è mediaticamente molto esposto coinvolge un pubblico sempre più vasto ed è qui che possono nascere potenziali nuovi giocatori.
Sicuramente è una disciplina “dura” e che “non perdona tanto”, bisogna essere preparati per andare in campo ma, allo stesso tempo, non servono particolari doti fisiche perché ci sono diversi ruoli che richiedono caratteristiche differenti. Insomma, tutti possono ritagliarsi il proprio spazio e credo che in futuro il rugby sarà praticato sempre di più. Anche a livello universitario ci sono le opportunità per affacciarsi a questo sport: ho vissuto un’esperienza da giocatrice e da allenatrice anche con il CUS di Verona e devo dire che partecipare a competizioni come i Campionati Nazionali Universitari (CNU) rappresenta un’esperienza pazzesca.

Il momento più emozionante della tua carriera sportiva?

Il mio primo inno nazionale. Ricordo che volevo cantare ma la voce non mi usciva per via dell’emozione. A livello personale è un punto di arrivo ma anche di partenza: quello che hai fatto rimane alle spalle, il contesto internazionale è tutt’altra cosa.

Cosa consigli a chi studia e pratica sport?

Penso che la cosa che può aiutare di più sia la passione. Nel momento in cui scegli una cosa che ti piace, la fatica non la senti. Quello che mi sento di consigliare è di non mollare mai lo sport. Ovviamente lo studio viene prima, ma l’attività fisica aiuta tantissimo soprattutto a livello organizzativo perché ti dà dei ritmi e dei tempi da rispettare. Nel momento in cui stai studiando, lo sport è anche una valvola di sfogo per la pressione e un aiuto nella sua gestione.

Anche in prossimità degli esami, che sono dei veri e propri traguardi, serve arrivare preparati e lo scoglio più difficile è presentarsi e riuscire a gestire la pressione che si avverte. In questo lo sport sicuramente aiuta: organizzazione e pressione diventano più gestibili se sei abituato a gestirli quotidianamente.

Giovanni de Manzoni, una carriera medica a Verona… per scelta

Laureato in Medicina e chirurgia nel 1986 e specializzato in Chirurgia d’urgenza, il Prof. Giovanni de Manzoni ricopre dal 2018 il ruolo di Direttore del Dipartimento di Scienze Chirurgiche Odontostomatologiche e Materno-Infantili dell’Università degli Studi di Verona. Il suo racconto a 360 gradi rivela l’importanza di avere una cultura umanistica per affrontare la professione medica e per trasmettere valore alle generazioni future di medici. 

Prof. De Manzoni, ci racconti la sua storia.

Mi chiamo Giovanni de Manzoni. Sono nato a Verona, ho studiato a Verona, vivo a Verona, lavoro a Verona e ho fatto carriera a Verona… nonostante sia piccola, la nostra città offre delle possibilità di sviluppo internazionale paragonabili solo ad altre grandi città. Al liceo classico non ero il più bravo della classe. Sono sempre stato un amante delle materie umanistiche eppure, all’ultimo anno di liceo, nel momento della scelta, è scattato dentro di me qualcosa che mi ha fatto propendere per una disciplina ben diversa, la medicina.

Qual è quel fattore che la motiva ogni giorno a venire a lavorare?

Potrei elencare più di un fattore, ma il primo è sicuramente il rapporto con il paziente. La mia curiosità, poi, mi permette di imparare ogni giorno dalle sfide che si presentano nel lavoro che svolgo. Oltre alla professione medica, svolgo anche il ruolo di docente, grazie al quale mi trovo circondato da studentesse e studenti volenterosi di imparare. Lavorare in un ospedale universitario ti dà la possibilità di assistere al ricambio generazionale e per me è entusiasmante poter trasmettere ai giovani “l’arte” della nostra professione.  

C’è qualcosa che si porta dietro dal periodo di studi?

Ho frequentato e mi sono diplomato al Liceo classico “Maffei” tra gli anni Settanta e Ottanta prima di iscrivermi alla facoltà di Medicina all’Università degli Studi di Verona. Aver studiato greco, latino, storia, filosofia mi ha aiutato durante il percorso universitario perché sono materie fondamentali a costruire una base per tutti i meccanismi di ragionamento. Ricordiamoci che anche la medicina è ragionamento, non è una scienza esatta, ha dei margini di errore. Stiamo attenti a non impoverire troppo i nostri studi perché in realtà restituiscono sempre qualcosa. Il lavoro di analisi che fa un medico è fondamentale e deriva sicuramente da un insieme di vissuto personale, storia professionale e preparazione culturale. 

Spesso chi si laurea preferisce guardare all’estero, ma quanto è ancora valido “giocare in casa” oggi? 

Quando i ragazzi vanno all’estero, spesso lo attribuiamo a un errore di sistema. Credo invece che molti dei migliori rimangano qui a “lottare”. Il problema è trovare un maestro che ti guidi lungo la strada da percorrere e questo non è semplice, ma non solo nel nostro Paese. Sicuramente rimanere in Italia è più difficile per una serie di ragioni ma, allo stesso tempo, è un percorso più formativo. A un ragazzo che vale consiglierei, appunto, di restare. 

Perché oggi si fatica o ci si rifiuta di accettare la sconfitta per progredire? 

Secondo me la colpa è della mia generazione. La questione nasce da un punto di vista educativo, non solo da parte dei genitori, ma anche a causa di un sistema che da una parte ci dice di non essere troppo selettivi e non mettere troppa pressione, e dall’altra di stare attenti che non è tutto semplice perché un pochino di difficoltà, anche quando si è giovani, è corretto affrontarla. Affrontando un esame, ad esempio, la bocciatura non deve essere ritenuta una cosa “tragica”. Ricordo durante gli anni di studio i miei insuccessi e quelli dei colleghi: è normale, anche questo aspetto fa parte del percorso.

Quanto è importante essere curiosi al di fuori del proprio ambito?

Per me la curiosità è fondamentale. Uno studente dovrebbe dedicare tempo alla lettura di libri e quotidiani, bisogna calarsi nella realtà di tutti i giorni perché altrimenti si rischia di astrarsi dal mondo che ci circonda. 

Quale consiglio darebbe agli studenti?

Un consiglio che darei ai ragazzi e alle ragazze è di avere un po’ più di “capacità di sofferenza”: le sconfitte esistono, vanno metabolizzate in maniera serena perché consentono di migliorarsi, non bisogna viverle in maniera drammatica. Molte volte mi accorgo che il fallimento lo vivono peggio gli studenti di come, invece, lo possa vivere io da professore. In fondo va compreso che fa tutto parte del percorso della formazione.

Stefano Trespidi, un alumno Univr ai vertici di Fondazione Arena

Una laurea in Giurisprudenza a Trento e una in Scienze della comunicazione a Verona non hanno placato la sete di formazione di Stefano Trespidi, regista e vice direttore artistico per Fondazione Arena, ora verso la laurea in Economia presso il nostro ateneo. Trespidi racconta il suo amore per il teatro, dalle prime esperienze di comparsa in Arena al management. “Agli studenti – spiega – consiglio di non aspettarsi che l’università li formi già per svolgere un mestiere. L’università ti fornisce una grammatica: sei tu che devi costruirti una base culturale e di esperienza che ti porti a una professione. Serve un comportamento proattivo”.  

Parlaci un po’ di te.  

Sono Stefano Trespidi, vice direttore artistico di Fondazione Arena di Verona. Ho compiuto i miei studi a Verona, al liceo scientifico, per poi iscrivermi a Giurisprudenza – e conseguire il titolo – all’Università di Trento. Parallelamente, già dall’età di 18 anni, avevo cominciato a lavorare come comparsa all’Arena di Verona, ed è stato proprio lì che mi sono appassionato al teatro e all’opera. Dopo la laurea, l’opportunità di frequentare un master in ambito giuridico negli Stati Uniti che mi ha portato per la prima volta lontano dall’estate areniana, ma il distacco è stato troppo forte. Per questo motivo, nel 1997, decisi di rientrare in Italia e abbandonare la carriera forense per dedicarmi completamente al teatro. 

Come hai affinato le tue competenze nell’ambito teatrale e registico?

L’ho fatto affrontando un corso di regia e produzione teatrale alla Scala di Milano, che ha di fatto avviato il mio percorso da regista, come volontario prima e come professionista poi. Nel 2002 venni assunto come aiuto regista all’Arena di Verona; poi, nel 2004, la nomina a responsabile dell’ufficio regia dell’Arena. Ho fatto per tanti anni, circa quindici, il regista o l’assistente alla regia in giro per l’Italia, da girovago… un teatrante con le valigie in mano, in pratica. Una svolta nella mia carriera lavorativa però arrivò nel 2018, quando Cecilia Gasdia divenne sovrintendente della Fondazione e mi chiese di collaborare con lei in maniera strutturata. Da allora in poi la mia vita divenne molto più stanziale, qui a Verona. Detto ciò, cerco sempre di seguire una o due produzioni all’anno fuori città per mantenere la mia passione originale e tenermi aggiornato a livello professionale. 

Tornando al tema universitario, fu durante i miei anni da girovago che decisi di iscrivermi a Scienze della comunicazione a Verona. Una volta laureato decisi di formarmi anche in ambito economico, per cui decisi di iscrivermi a Economia aziendale. Ora mi manca solo l’ultimo esame per completare il corso!

Come sei passato da tre corsi di studio così diversi tra loro?

Innanzitutto perché il teatro e lo spettacolo vivono di comunicazione, basti vedere cosa succede durante Sanremo, l’attenzione mediatica per giorni e giorni si focalizza su interventi, ospiti, testi delle canzoni che incollano la popolazione e i media solo su determinati temi: questo dà un’idea di come i mezzi di comunicazione siano fondamentali nell’ambito dello spettacolo. Un contenitore artistico per giorni e giorni diventa l’evento principale della vita sociale, culturale e sociologica del

Paese. Oggi è veramente importante quanto fai e come lo fai, ma lo sono altrettanto il prodotto artistico e come esso viene comunicato. Studiare Scienze della comunicazione è stato un corollario nel mio percorso. Il fatto di essermi trasformato, poi, da manager del palcoscenico come regista a manager di un teatro, mi ha fatto capire che ero lacunoso nel management teatrale tout court. Considerando la mia carriera artistica e la mia formazione comunicativa e giuridica, ho sentito la necessità di colmare il gap anche dal punto di vista economico e dell’organizzazione aziendale.

Ti sono serviti tutti questi studi?

Sì, totalmente. Il sistema italiano non produce manager culturali di alto livello che siano spendibili nelle istituzioni italiane, per non parlare di quelle europee. L’aspetto che ho compreso è che, diversamente da altri Paesi, qui manca la prospettiva secondo la quale un manager non possa avere solamente una competenza artistica o giuridica o economica, ma debba invece averle tutte, con almeno un livello medio di competenza su tutti gli aspetti. Poiché in Italia non avviene, ho pensato di formarmi adeguatamente in tutti questi ambiti.

Cosa consigli a chi studia e lavora?

Ho la convinzione profonda e personale che il mondo dell’istruzione sia cambiato tantissimo. Ho avuto la possibilità di vivere il mondo accademico in tempi diversi e di vederlo cambiare nel corso di oltre vent’anni. Un tempo le professioni avevano delle “corsie” predeterminate che, se le seguivi, ti portavano all’obiettivo, in un modo o nell’altro.
Oggi il mondo del lavoro si è molto destrutturato, si affermano delle professioni che nascono non da un’esigenza ma che vengono modellate dal mercato, vedasi gli influencer.
Il consiglio che darei a uno studente universitario è di non aspettarsi che l’università ti formi per svolgere un mestiere. L’università ti fornisce una grammatica: sei tu che devi costruirti una base culturale e di esperienza che ti porti a una professione. Serve un comportamento proattivo, bisogna guardare a se stessi, guardare il mercato, capire dove si vuole arrivare e comprendere da soli quali sono gli strumenti di cui dotarsi per arrivare a quella posizione. Non puoi delegare queste azioni all’università come, invece, accadeva un tempo. Oggi la formazione accademica arriva a un punto, poi sei tu a doverci mettere del tuo.

C’è qualcosa che ti porti dagli anni dell’università?

L’università un tempo era più formale, severa nelle ritualità, nelle modalità di approccio, nella relazione con i professori. Posso dire che quello che mi hanno lasciato gli anni di università è stato un approccio meticoloso alle cose: preciso, sistematico, di analisi, di ragionamento profondo. Un approccio che non mi ha mai abbandonato. Queste qualità ti portano a scandagliare e approfondire la realtà che hai di fronte. Trovo che questo sia un aspetto affascinante della vita.


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Francesca Palladini, dirigente medica all’Aoui di Verona

Francesca Palladini è dirigente medica e fa parte dell’equipe della Direzione medica ospedaliera per le Funzioni igienico-sanitarie e prevenzione del rischio dell’Aoui, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona. Al percorso formativo avviato con la laurea in Medicina e chirurgia all’Università di Padova la dott.ssa Palladini ha aggiunto la specializzazione in Igiene e medicina preventiva presso il nostro ateneo. La dirigente si racconta dentro e fuori il posto di lavoro, con alcuni consigli su come affrontare un percorso tanto affascinante quanto difficoltoso.

Parlaci di te, Francesca.

Sono Francesca Palladini, trentuno anni, e faccio parte dell’equipe della Direzione medica ospedaliera per le Funzioni igienico-sanitarie e prevenzione del rischio dell’Aoui Verona, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata. All’Università di Verona ho completato i miei studi con la specializzazione in Igiene e medicina preventiva. Mi considero una persona entusiasta, nel senso che mi metto in gioco tutte le volte che è possibile.

Come si svolge la tua giornata tipo?

La mia giornata tipo può variare molto a seconda dei periodi. In genere qui iniziamo verso 8.30/9.00 del mattino, ma nei periodi più intensi finiamo anche molto tardi. Alla mattina abbiamo una routine: ci dividiamo i compiti e ci si organizza rispetto alle attività da svolgere. Nelle giornate di lavoro più intenso, alla sera facciamo un debriefing con i colleghi. Fuori dal lavoro non ho un hobby principale: mi piace andare al cinema e uscire a cena con gli amici, nel weekend amo fare delle belle passeggiate e possibilmente stare all’aperto. 

Quanto conta instaurare relazioni “umane” nel lavoro?

Personalmente credo molto nei rapporti umani che si creano all’interno del luogo di lavoro e che poi si continuano a coltivare anche fuori. Si tratta di un aspetto che ho iniziato a considerare con più attenzione quando mi sono approcciata per la prima volta agli ambienti di lavoro: da allora, per me è sempre stato un elemento che alleggerisce le difficoltà quotidiane che si possono incontrare. Apprezzo tanto il fatto di portare avanti delle relazioni umane sul lavoro: permette di prendersi una piccola pausa durante la giornata per darsi un piccolo incoraggiamento a vicenda nei momenti di difficoltà.

Descrivici il tuo percorso di formazione. Come sei arrivata a un ruolo così importante?

Il mio percorso è iniziato al liceo classico. Dopo essermi diplomata, mi sono iscritta a Medicina e chirurgia all’Università di Padova. Mi sono laureata nei tempi giusti ma, nei miei anni, il corso non era professionalizzante, per cui ho avuto un periodo di latenza prima dell’abilitazione, nel quale ho anche viaggiato. Dopo l’abilitazione ho iniziato a lavorare, ed è lì che sono cambiati i miei orizzonti: la laurea in Medicina è una delle più lunghe, e per la prima volta ho iniziato ad avere una prospettiva di quello che sarebbe stato il lavoro vero. Mi sono messa subito in gioco: dapprima facendo il medico di guardia in una struttura privata, poi conducendo corsi di primo soccorso aziendale. Un’esperienza che ho apprezzato molto perché così si diffonde un minimo di cultura sanitaria anche nella popolazione non addetta ai lavori. 

Poi è arrivata la specializzazione nel nostro ateneo…

Esattamente. È proprio al culmine di tutte queste esperienze che ho conseguito la mia specialità in Igiene e medicina preventiva all’Università degli Studi di Verona. Durante gli studi precedenti non avevo un’idea precisa di questo settore che però mi aveva sempre attirato: l’ho sempre considerata come una specialità in grado di valorizzare degli aspetti del mio carattere e della mia personalità. Ho deciso così di cambiare ateneo e città: da qui deriva la scelta di Verona che offriva il percorso che mi interessava di più. 

Cosa consigli a studentesse e studenti che si approcciano al mondo del lavoro?

A chi affronta i miei stessi studi, vorrei dire che non è vero che “dopo anatomia è tutto in discesa”: si dice così ma è un falso mito. La parte più dura di questi anni è che la prospettiva è sempre a medio-lungo termine, cioè quando gran parte dei tuoi compagni delle superiori si laureano, tu sei a malapena alla metà del tuo percorso. La laurea in Medicina è una prova di resistenza e resilienza, però poi arriva la fine. C’è un periodo più difficile di tutti, quando ti chiedi “chi te l’ha fatto fare”, però il consiglio per chi inizia è di fare un passo alla volta, esame per esame, senza rinunciare mai alla vita fuori dall’università, mi ha aiutato a vivere più serena quegli anni. Lo direi a tutti gli studenti, ma a quelli di Medicina in particolare, per i quali il carico di studio si protrae più a lungo nel tempo. Non focalizzarsi solo sulla durata aiuta molto ad andare avanti. A chi si sta laureando e si sta affacciando alla vita professionale il mio consiglio e la mia speranza è di avere sempre vigile la percezione che si può imparare da tutti: da chi fa la nostra professione e ha più esperienza di noi, ma anche da figure professionali molto diverse. Qualcuno ti insegna cosa vorrai diventare, qualcun altro, invece, quello che non vorrai mai essere… sta poi alla persona imparare per analogia o per contrasto.

Definiresti la carriera medica come una vocazione?


Per quello che è la mia personalissima esperienza, non definirei questo lavoro una vocazione, una forza esterna che ti chiama e ti attira, una tensione. Io invece la mia professione l’ho sempre percepita come un percorso. È certo che la tua crescita va verso l’obiettivo, ma la mia sensazione è questa: si deve avvertire una spinta che viene e deve per forza venire dal basso, da se stessi, perché se così non fosse poi ti ritrovi a dire “ma chi me lo fa fare”, con difficoltà e sconforto pronte a prendere il sopravvento. La motivazione è tua e ti conduce a una crescita per il raggiungimento del tuo obiettivo.

Marco Melegaro, un Alumno Univr nel mondo del giornalismo

Marco Melegaro, laureato Univr in Lettere moderne con una tesi sul linguaggio televisivo, dal 2003 lavora nella redazione di Sky Tg24. I suoi interessi spaziano dalla storia della televisione al mondo dello spettacolo. Oggi ci racconta il suo lavoro e il suo percorso professionale

Marco Melegaro, descriviti in poche parole.

Mi chiamo Marco Melegaro, sono nato a Verona il 15 febbraio 1963. Segno zodiacale, acquario. Nel mio CV c’è una laurea in Lettere moderne all’Università di Verona e una tesi sul linguaggio televisivo. Sono un giornalista e lavoro nella redazione di SkyTg24, dove ho seguito per anni il mondo dello spettacolo e ora lavoro nel coordinamento. Una professione che negli anni mi ha dato la possibilità di intervistare attori, registi e personaggi dello spettacolo, come l’attore Diego Abatantuono, il regista Mario Martone e il cantante Sting.

Ci racconti la tua esperienza all’Università di Verona?

La mia esperienza con Univr è cominciata alla facoltà di Lettere, alla quale mi sono iscritto dopo aver conseguito il diploma in Ragioneria. È stata una scelta per certi versi controcorrente: a dispetto di quanti mi dicevano che con una laurea in lettere non avrei trovato facilmente un lavoro, io ho trovato la mia strada proprio assecondando le mie passioni. L’Università per me è stata un’esperienza fondamentale dal punto di vista formativo. Ho avuto docenti che si sono rivelati determinanti per il mio percorso, così come alcuni insegnamenti, come filosofia delle religioni e antropologia culturale, che mi hanno davvero “aperto la mente”. Penso che il percorso formativo sia fondamentale poiché ti consente di sviluppare un pensiero critico con il quotidiano, con la TV e i social.

C’è poi il passaggio al mondo del lavoro…

Già ai tempi dell’università mi sono attivato per fare della mia passione, il giornalismo, una professione, inizialmente scrivendo discorsi per alcuni parlamentari veronesi, per quanto di politica non me ne sia mai occupato direttamente. Poi arrivò un contratto part-time da impiegato per una nota impresa: un impiego di ufficio che, seppur non nel settore del giornalismo, mi ha però permesso di dedicarmi anche alla mia passione, ricoprendo il ruolo di direttore per Trenta, un giornale universitario. Dopo diverse collaborazioni giornalistiche, sono approdato a Stream TV e infine a Sky. È a SkyTg24, il telegiornale di Sky, che dal 2003 ho potuto vivere in prima persona il passaggio dall’analogico al digitale, e l’arrivo rivoluzionario in Italia dell’All-news, un modello di informazione americano che mette al primo posto velocità della notizia e approfondimento.

Ci racconti la tua giornata tipo?

Le mie giornate sono caratterizzate da molto studio e molte relazioni. “Veloce” è un termine efficace per descrivere la mia giornata. Nel mio lavoro è fondamentale avere il quadro completo delle notizie del momento, e di cosa mandare in onda. Questa è di per se la grande sfida del giornalista: non perdere mai di vista la notizia. La mia giornata comincia con la lettura dei quotidiani (cartacei e online), perché è necessario essere sempre preparati sull’attualità. Il mio è un lavoro nel quale non si stacca mai completamente, non si riesce. È una professione che richiede un approfondimento continuo. Quando arrivo in redazione, una cosa è certa: non si occupa mai la stessa scrivania, perché bisogna sempre seguire la notizia in base ai colleghi disponibili in redazione. E poi c’è il lavoro su turni, anche di notte, ad esempio da mezzanotte alle sette del mattino, quando rimanere lucidi è più difficile ma fondamentale.

Come è nata la tua passione per il giornalismo?

Per essere un buon giornalista occorre essere curiosi: una caratteristica che non mi è mai mancata, assieme a una buona dose di timidezza. Eppure è proprio quando ti metti in gioco che hai la possibilità di far emergere la tua originalità. E così mi sono accostato per la prima volta, da giovanissimo, al giornalismo e al mondo della televisione. Quando da ragazzino vedevo delle telecamere in azione, non potevo trattenermi dall’essere curioso e dal chiedermi quale fosse il tema del servizio.

Che consigli ti senti di dare a chi vuole avvicinarsi al mondo del giornalismo?

Chi vuole fare del giornalismo la propria passione oggi può frequentare corsi di laurea, scuole di giornalismo o master specifici, ma penso che sia fondamentale fare anche le proprie esperienze sul campo. Ad esempio, attraverso i social – che oggi sono un grande aiuto nel nostro mondo – i giovani possono diventare “portatori di notizie”. I giovani che arrivano in redazione diventano protagonisti: iniziano con uno stage o una sostituzione estiva, spesso sono assunti per un anno e possono poi entrare a far parte della Redazione. Infine, non dimentichiamo che diventare giornalisti significa anche essere disposti a muoversi dal proprio luogo di origine e trasferirsi in altre città o Paesi. Personalmente, il mio percorso mi ha portato da Verona a Roma, per cui direi che è fondamentale avere una disponibilità a lasciare il proprio contesto di origine.


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Beatrice Manca, giornalista di moda e tendenze

Beatrice Manca, trentenne laureata in Editoria e Giornalismo, è giornalista professionista e docente. Scrive di moda, tendenze e questioni di genere.

Beatrice, descriviti in poche parole.

Sono Beatrice Manca, ho trent’anni, nel 2016 mi sono laureata in Editoria e Giornalismo all’Università di Verona, dopo una triennale conseguita a Pisa. Sono giornalista professionista e scrivo di moda, tendenze e questioni di genere. Ho un corso all’Accademia Costume e Moda in cui parlo di narrazioni social e questioni ambientali agli studenti.

Ci racconti com’è nata la tua passione per il giornalismo?

Scrivere è sempre stato il mio sogno. A casa mia i giornali ci sono sempre stati, ricordo fin da piccola, con piacere, mio nonno che ogni giorno leggeva il quotidiano. Ma è leggendo assiduamente i supplementi di cultura e i femminili che è nato il mio amore per il giornalismo e per le riviste.

Ci racconti com’è stato scegliere il percorso universitario?

Con un papà avvocato e una mamma medico, sembrava che il mio percorso universitario fosse in un qualche modo segnato. Io però volevo fare un lavoro creativo: per questo, devo dire, la scelta dell’università è stata piuttosto sofferta. Dovevo scegliere tra un percorso che mi avrebbe garantito un lavoro con delle sicurezze, e il lavoro che avrei davvero voluto fare. Allora ho scelto di iscrivermi a Lettere. Oggi sono giornalista professionista e scrivo per varie testate in tema di costume e società, un ambito dove si intrecciano arte, cultura e cinema. Ma non solo: scrivo anche di diritti, questioni di genere, ambiente. 

E l’ingresso nel mondo del lavoro?

Sono stata molto fortunata, perché dopo la laurea ho iniziato a lavorare fin da subito. Ora sono freelance, ma prima ho fatto diverse esperienze da dipendente. Per quasi tre anni ho lavorato per Fanpage.it, poi ho deciso di fare il salto verso la libera professione per conciliare insegnamento e giornalismo. Grazie alla vincita di una borsa di studio, infatti, ho potuto frequentare per un semestre l’Accademia Costume & Moda di Roma, che qualche anno dopo mi ha chiamata per dei laboratori con gli studenti. Ora collaboro, tra gli altri, con MANINTOWN, ilfattoquotidiano.it e il Foglio della Moda.

Qual è il sacrificio maggiore che si deve mettere in conto se si vuole intraprendere una carriera nel giornalismo?

Direi che nella fase iniziale è inevitabile affrontare il precariato diffuso, che ti fa sembrare che non inizierai mai a lavorare sul serio. Poi però non appena prendi il via, il lavoro rischia di fagocitarti: il mondo gira velocemente e tu devi girare con lui. Un periodo iniziale di precariato e di basse retribuzioni purtroppo spesso va messo in conto. Si fa giornalismo perché si ha la vocazione, ma non deve diventare volontariato puro, per la causa. A un certo punto è necessario mettere dei paletti. Il lavoro si paga, altrimenti è un hobby. Fondamentale poi è investire molto in se stessi fin dall’inizio e, porsi degli obiettivi o dei limiti: quanto siamo disposti a lavorare anche a poco ma per fare esperienza?


Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia agenda è davvero imprevedibile e spesso sono fuori casa, computer in spalla, per seguire eventi, conferenze, festival, o per le interviste. Va detto che la vita sociale è una grande fetta della vita del giornalista: specialmente nel mio ambito, andare a feste, cene ed eventi è fondamentale per crearsi una rete di rapporti professionali. Quando posso, lavoro nello spazio co-working della redazione, oppure lavoro da casa. In generale, dalle 7 alle 8 di mattina mi prendo sempre un’ora per capire cosa succede nel mondo e per informarmi – la cosiddetta rassegna stampa – mentre la sera invece mi concedo un’ora per leggere, anche (e soprattutto) per piacere. 

Come pensi sia cambiato il tuo lavoro negli ultimi anni?

Fino a quindici anni fare il giornalista significava trovare le notizie e scriverle bene. Ora le competenze da avere si sono moltiplicate: devi sapere fare foto e video, saper impaginare un testo per l’online, capire come usare i siti e i social sia come fonti, sia come mezzo di comunicazione per raccontare l’attualità. Oggi i social network sono ciò che erano una volta le piazze: se una volta ci si chiedeva “Cosa si dice al bar?”, oggi ci chiediamo “Di cosa si parla sui social?”

In che modo l’Università ti ha aiutato a costruire le skills necessarie a lavorare nel giornalismo?

Una delle esperienze più significative è quella che ho fatto a Fuori Aula Network, la radio dell’Università di Verona. È lì che ho lavorato al programma PopCorn, un format dedicato al cinema che conducevo insieme a Caterina Moser. Ed è lì che mi sono messa alla prova con l’ideazione di programmi, l’editing di audio, la registrazione… ho imparato un sacco di cose! E poi per me la radio universitaria era un piccolo mondo in cui chiunque avesse una buona idea poteva proporla e svilupparla.

Ti occupi soprattutto di spettacoli, costume e società. C’è un tema che ti sta particolarmente a cuore?


Forse la questione che mi sta più a cuore oggi è quella ambientale, che io seguo dal lato della moda sostenibile e che è anche uno dei focus dei miei corsi in Accademia. Sul lato ‘pop’, invece,
posso dire di essermi specializzata nella storia della famiglia reale inglese. Su Elisabetta II ho letto praticamente tutto, e ho seguito nel giro di pochi mesi sia il Giubileo del suo regno che i suoi funerali: situazioni nelle quali senti di avere avuto un posto in prima fila mentre la storia accadeva. Una mia collega mi ha perfino regalato come portafortuna la sua statuetta Funko Pop! 

Consigli da dare ai laureati?

Buttatevi: se volete davvero fare qualcosa, provateci. Per chi vuole fare il giornalista penso sia fondamentale avere flessibilità, capacità di essere autonomi e di avere sempre uno sguardo curioso sulle cose. Ricordatevi sempre che, in qualità di giornalisti, dobbiamo osservare da vicino la realtà di cui scriviamo, mantenendo però il giusto distacco.


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Il mio Expo Dubai: un incontro con mondi nuovi e diversi

“Da pochi giorni ho concluso la mia esperienza di stage ad Expo 2020 Dubai. Sono venuta a conoscenza del progetto grazie all’Università di Verona, che ha pubblicato il bando ad inizio 2021 e ho deciso di candidarmi e tentare la selezione., che richiedeva in particolare alte competenze linguistiche, preferibilmente precedenti esperienze all’estero ed una lettera motivazionale. 

Le ragioni principali che mi hanno spinto a candidarmi sono state la mia costante necessità di approcciarmi a mondi nuovi e diversi – ragione per cui in fondo ho scelto il percorso di studi con focus sulle relazioni internazionali – il desiderio di rappresentare il mio Paese e promuoverne la ripresa – in particolare dopo averlo visto lacerato dalla piaga Covid negli ultimi anni – e la necessità personale di imparare, crescere e sperimentare in un contesto mondiale. 

Le candidature si sono concluse con più di 8500 ragazzi e ad aprile 2021 sono uscite le graduatorie, dove ho scoperto di essere stata selezionata come ambasciatrice digitale insieme ad altri 59 studenti provenienti da tutta Italia. La formazione inizialmente è avvenuta in DAD per poi seguire con gli ultimi 15 giorni in presenza a Dubai, dal 1° ottobre 2021 è poi iniziata Expo e da lì anche il lavoro vero e proprio sul campo. 

I ruoli principali che ho svolto sono stati: la preparazione dello storytelling del padiglione, la gestione del percorso espositivo con tour guidati per ospiti nazionali ed internazionali, attività di public speaking e set on stage, l’organizzazione e partecipazione ad eventi e la collaborazione con diverse funzioni del commissariato tra cui la funzione ‘institutional’ che si occupa della gestione degli eventi internazionali e del contatto con tutte le istituzioni italiane e non aderenti ad Expo e la funzione ‘business’ che riguarda la gestione degli sponsor, partner e stakeholder del padiglione Italia. 

Questa esperienza mi ha arricchito sia dal punto di vista personale che professionale: mi ha permesso di conoscere e mettere in pratica le lingue che ho studiato, relazionarmi con nuove persone e culture oltre che venire a contatto con il grande mondo degli scambi internazionali.  Ho avuto modo di capire le logiche di collaborazione economica, sociale e politica, apprendere protocolli e procedure internazionali, aver voce in meeting internazionali e soprattutto promuovere il mio Paese all’estero. 

Nonostante sia innegabile il fatto che l’esperienza sia stata totalizzante sia dal punto di vista fisico che mentale, raccomando a qualsiasi studente non solo di partecipare a quanti più progetti Erasmus possibili ma anche di tentare le traineeships all’estero, poiché venire in contatto con un mondo del lavoro diverso da quello italiano aiuta a sviluppare un maggior pensiero critico, imparare come mediare ed essere tolleranti, capire quali siano le vere competenze da acquisire e soprattutto capire come fare la differenza sia nella propria vita personale che nella futura carriera lavorativa. “

Elisa, studentessa di Lingue per la Comunicazione Turistica e Commerciale 
Instagram:@e.isonni 

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