Beatrice Manca, giornalista di moda e tendenze

Beatrice Manca, trentenne laureata in Editoria e Giornalismo, è giornalista professionista e docente. Scrive di moda, tendenze e questioni di genere.

Beatrice, descriviti in poche parole.

Sono Beatrice Manca, ho trent’anni, nel 2016 mi sono laureata in Editoria e Giornalismo all’Università di Verona, dopo una triennale conseguita a Pisa. Sono giornalista professionista e scrivo di moda, tendenze e questioni di genere. Ho un corso all’Accademia Costume e Moda in cui parlo di narrazioni social e questioni ambientali agli studenti.

Ci racconti com’è nata la tua passione per il giornalismo?

Scrivere è sempre stato il mio sogno. A casa mia i giornali ci sono sempre stati, ricordo fin da piccola, con piacere, mio nonno che ogni giorno leggeva il quotidiano. Ma è leggendo assiduamente i supplementi di cultura e i femminili che è nato il mio amore per il giornalismo e per le riviste.

Ci racconti com’è stato scegliere il percorso universitario?

Con un papà avvocato e una mamma medico, sembrava che il mio percorso universitario fosse in un qualche modo segnato. Io però volevo fare un lavoro creativo: per questo, devo dire, la scelta dell’università è stata piuttosto sofferta. Dovevo scegliere tra un percorso che mi avrebbe garantito un lavoro con delle sicurezze, e il lavoro che avrei davvero voluto fare. Allora ho scelto di iscrivermi a Lettere. Oggi sono giornalista professionista e scrivo per varie testate in tema di costume e società, un ambito dove si intrecciano arte, cultura e cinema. Ma non solo: scrivo anche di diritti, questioni di genere, ambiente. 

E l’ingresso nel mondo del lavoro?

Sono stata molto fortunata, perché dopo la laurea ho iniziato a lavorare fin da subito. Ora sono freelance, ma prima ho fatto diverse esperienze da dipendente. Per quasi tre anni ho lavorato per Fanpage.it, poi ho deciso di fare il salto verso la libera professione per conciliare insegnamento e giornalismo. Grazie alla vincita di una borsa di studio, infatti, ho potuto frequentare per un semestre l’Accademia Costume & Moda di Roma, che qualche anno dopo mi ha chiamata per dei laboratori con gli studenti. Ora collaboro, tra gli altri, con MANINTOWN, ilfattoquotidiano.it e il Foglio della Moda.

Qual è il sacrificio maggiore che si deve mettere in conto se si vuole intraprendere una carriera nel giornalismo?

Direi che nella fase iniziale è inevitabile affrontare il precariato diffuso, che ti fa sembrare che non inizierai mai a lavorare sul serio. Poi però non appena prendi il via, il lavoro rischia di fagocitarti: il mondo gira velocemente e tu devi girare con lui. Un periodo iniziale di precariato e di basse retribuzioni purtroppo spesso va messo in conto. Si fa giornalismo perché si ha la vocazione, ma non deve diventare volontariato puro, per la causa. A un certo punto è necessario mettere dei paletti. Il lavoro si paga, altrimenti è un hobby. Fondamentale poi è investire molto in se stessi fin dall’inizio e, porsi degli obiettivi o dei limiti: quanto siamo disposti a lavorare anche a poco ma per fare esperienza?


Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia agenda è davvero imprevedibile e spesso sono fuori casa, computer in spalla, per seguire eventi, conferenze, festival, o per le interviste. Va detto che la vita sociale è una grande fetta della vita del giornalista: specialmente nel mio ambito, andare a feste, cene ed eventi è fondamentale per crearsi una rete di rapporti professionali. Quando posso, lavoro nello spazio co-working della redazione, oppure lavoro da casa. In generale, dalle 7 alle 8 di mattina mi prendo sempre un’ora per capire cosa succede nel mondo e per informarmi – la cosiddetta rassegna stampa – mentre la sera invece mi concedo un’ora per leggere, anche (e soprattutto) per piacere. 

Come pensi sia cambiato il tuo lavoro negli ultimi anni?

Fino a quindici anni fare il giornalista significava trovare le notizie e scriverle bene. Ora le competenze da avere si sono moltiplicate: devi sapere fare foto e video, saper impaginare un testo per l’online, capire come usare i siti e i social sia come fonti, sia come mezzo di comunicazione per raccontare l’attualità. Oggi i social network sono ciò che erano una volta le piazze: se una volta ci si chiedeva “Cosa si dice al bar?”, oggi ci chiediamo “Di cosa si parla sui social?”

In che modo l’Università ti ha aiutato a costruire le skills necessarie a lavorare nel giornalismo?

Una delle esperienze più significative è quella che ho fatto a Fuori Aula Network, la radio dell’Università di Verona. È lì che ho lavorato al programma PopCorn, un format dedicato al cinema che conducevo insieme a Caterina Moser. Ed è lì che mi sono messa alla prova con l’ideazione di programmi, l’editing di audio, la registrazione… ho imparato un sacco di cose! E poi per me la radio universitaria era un piccolo mondo in cui chiunque avesse una buona idea poteva proporla e svilupparla.

Ti occupi soprattutto di spettacoli, costume e società. C’è un tema che ti sta particolarmente a cuore?


Forse la questione che mi sta più a cuore oggi è quella ambientale, che io seguo dal lato della moda sostenibile e che è anche uno dei focus dei miei corsi in Accademia. Sul lato ‘pop’, invece,
posso dire di essermi specializzata nella storia della famiglia reale inglese. Su Elisabetta II ho letto praticamente tutto, e ho seguito nel giro di pochi mesi sia il Giubileo del suo regno che i suoi funerali: situazioni nelle quali senti di avere avuto un posto in prima fila mentre la storia accadeva. Una mia collega mi ha perfino regalato come portafortuna la sua statuetta Funko Pop! 

Consigli da dare ai laureati?

Buttatevi: se volete davvero fare qualcosa, provateci. Per chi vuole fare il giornalista penso sia fondamentale avere flessibilità, capacità di essere autonomi e di avere sempre uno sguardo curioso sulle cose. Ricordatevi sempre che, in qualità di giornalisti, dobbiamo osservare da vicino la realtà di cui scriviamo, mantenendo però il giusto distacco.


Segui Beatrice Manca su LinkedIn

Se il Paradiso è così, mi trasferisco a Sydney per sempre

“8 luglio 2019. È nato tutto per caso, quasi per gioco, e magari con quel pizzico di incoscienza che solo la giovinezza dei 24 anni può regalarti. Sono al Consiglio europeo di Bruxelles per iniziare il mio tirocinio come giornalista europeo presso le istituzioni e il mio tutor aziendale mi introduce nel magico mondo della comunicazione televisiva, mettendomi in mano una videocamera per filmare il doorstep di un ministro italiano.

«Sei un pesce, ti butto in acqua: fammi vedere se sai nuotare!».

Le ultime parole famose, prima di essere accerchiato da colleghi di Rai, Mediaset e ANSA. Passa il ministro, il REC è attivato, ma la vera registrazione è quella che sto vivendo dentro di me. Da quel momento scatta un amore folle per quella che sarebbe diventata la compagna più bella da voler conquistare: la videocamera, una di quelle che ti cambia la vita e te la fa vivere “un quarto di pixel alla volta”.

Quel tirocinio fu tutto per me: il videomaking mi trasformò in un video-giornalista, e trasformò se stesso, come direbbe il buon Armani, in quella “eleganza non da notare, ma da ricordare”. I microfoni, il treppiede, lo stabilizzatore divennero l’emblema di una crescita costante tanto nel campo giornalistico quanto in quello multimediale, ma soprattutto rappresentarono la motivazione principale verso il mio balzo decisivo: un’esperienza in una filmmaking company. Ecco: la videocamera me la sono ricordata eccome!

16 novembre 2019. Con gli occhi socchiusi, dopo due giorni di viaggio in aereo passando per Londra e Pechino, e con 10 ore di jet lag tra Europa e Oceania, vedo “l’eternità del mare mischiato col sole”. Giuro che non provo a copiare Arthurt Rimbaud per immaginarmela davanti agli occhi, così come non attingo da Herb Caen quando provo a descriverla, ma devo ammettere con tutto il mio cuore che quando la vidi pensai: “Se il Paradiso è così, mi trasferisco a Sydney per sempre”.

Fu tanto shakespeariano il mio incontro con la città dei canguri e dei koala: la perfetta “alchimia nella combinazione tra emozioni ed immagini”, quasi come un fotogramma in una pellicola di Francis Coppola. Questa, però, era la mia pellicola più personale, quella del mio più introspettivo editing. Arrivai subito a capire l’importanza del “guaio” in cui mi ero cacciato: stavo imparando a riprendere e montare da tizi che avevano lavorato con Disney e Paramount, tanto per citarne un paio, e non si limitavano al banale cavalletto con microfono per le interviste, bensì montavano dei veri e propri palcoscenici cinematografici. Fu lì che pensai: “Come è possibile che io abbia voluto fare il giornalista per tutta la mia vita e ora mi ritrovo a voler diventare anche un film-maker?”.

Mio padre mi ha sempre detto che nella vita bisogna fare ciò che si è capaci di fare, e allora guardavo gli altri per “rubare il lavoro”, registravo seguendo tutti i consigli necessari, caricavo l’attrezzatura per essere utile al gruppo, piangevo tra me e me per sorridere agli altri. E alla fine, guess what? Aveva ragione mio padre: presi la fotocamera Sony Alpha 7 di Lenard, il direttore della film-making company dove stavo facendo pratica, e decisi di fare un mini-video per la pagina “solo italiani estero” per il mio tutor aziendale, che nel frattempo aspettava progressi da Bruxelles, e per me stesso, per migliorarmi e per mettermi alla prova.

3 gennaio 2020. Il mio tutor aziendale: «Ho guardato il video australiano: beh, eccezionale, tecnicamente è fatto molto bene, complimenti davvero! Bravissimo!».

13 gennaio 2020: Ho finalmente comprato l’attrezzatura e la mia fotocamera. Indovinate? Una Sony Alpha 7.

Questa parte della mia vita, l’Australia, questa piccola parte della mia vita si può chiamare Felicità”. O meglio, “video-happiness making”, mate!”

Michele, studente di Editoria e Giornalismo

Instagram: @mr.melemayo

Proudly powered by WordPress | Theme: Baskerville 2 by Anders Noren.

Up ↑