
Sandy Magagnin, bolzanina di nascita, ha scelto l’Univr per frequentare e laurearsi in Scienze dell’educazione alla triennale e Scienze pedagogiche alla magistrale. Verona è ora la sua città d’adozione ed è qui che vive e lavora come educatrice, pedagogista e mental coach. Sandy ci ha raccontato il suo percorso fatto di studio e passione.
Ciao Sandy, parlaci un po’ del tuo percorso di studi.
Il mio percorso di studi è cominciato a Bolzano, la mia città di origine, con un liceo socio-psico-pedagogico. Dopo la maturità scelsi di spostarmi a Verona e di iscrivermi a Scienze dell’educazione. Per me Verona era l’opzione universitaria in lingua italiana più vicina a casa e logisticamente più comoda. La città la conoscevo già e mi avrebbe fatto piacere venire a viverla da studentessa fuori sede. Il fatto, poi, di poter contare sul supporto del collegio Don Mazza, dove ho abitato durante gli studi, ha influito positivamente sulla decisione di trasferirmi.
Dopo la laurea decisi di rimanere all’interno del collegio e procedere con la magistrale in Scienze pedagogiche che, con il mio titolo triennale, non necessitava di un test di ingresso. Terminati gli studi, mi sono buttata nel campo educativo, una decisione maturata già da tempo.
Io arrivo dal vecchio ordinamento sia della triennale in Scienze dell’educazione che della magistrale in Scienze pedagogiche quindi la mia laurea mi permette di lavorare in qualunque campo educativo: un dettaglio non da poco come scelta che mi ha permesso di avere uno sbocco lavorativo molto ampio. Questo è stato un “regalo” che l’Univr mi ha fatto visto che proprio l’anno successivo le cose sono cambiate e i corsi sono stati suddivisi in curricula. Ogni tanto un colpo di fortuna capita anche a me (ride, nda).
Dopo 12 anni a Verona, posso dire di essere più veronese che bolzanina, anche perché nella mia città d’origine non sono più tornata. Attualmente vivo e lavoro a Verona.

Il tuo percorso lavorativo è partito già durante la triennale e oggi sei arrivata a fare tantissime cose, raccontaci un po’…
Sì faccio tantissime cose, vi annoierò un sacco a raccontarvele tutte (ride, nda)!
Ho iniziato a lavorare già durante la triennale con delle sostituzioni in asili nidi privati a Verona e facendo l’educatrice per l’infanzia. Lavorare nel campo educativo mentre si studia è fondamentale perché comporta che tutto quello che si apprende sui libri si vive giorno per giorno nella realtà, ci si mette alla prova, ci si mette tanto in gioco. Sui testi sembra tutto bellissimo e facilissimo ma poi, all’atto pratico, c’è sempre l’imprevisto che richiede delle grandissime dosi di pazienza e problem solving. Si va avanti così, per prove, tentativi ed errori, ci si mette una mano sulla spalla e ci si incita ad andare avanti. Lavorare mi ha portato ad apprezzare molto di più quello che stavo studiando perché è davvero una soddisfazione vedere che quello che hai appreso teoricamente mesi prima e che ti ha impegnato tantissimo ha finalmente dato i suoi frutti.
Nel corso della magistrale mi è stato offerto un contratto a tempo indeterminato a tempo pieno, che ho accettato ben volentieri. Lo status di studentessa lavoratrice ha comportato diverse difficoltà perché, oggettivamente, quando si va a lavorare per otto ore nei servizi educativi poi si arriva a casa stanchi. Ho dovuto attingere alle 150 ore per lo studio, che sono permessi retribuiti per i lavoratori che intendono studiare e, al contempo, frequentare un corso di studio. Alcuni titolari te le riconoscono senza problemi, altri invece vedono la tua assenza come un “peso”. Il rischio in questi casi è di vedersi complicare il percorso di studi che dovrebbe portarti a essere una professionista migliore.
Una volta laureatami in Scienze pedagogiche, arrivarono richieste da parte di due micronidi per coordinarli. Io ero neofita nel campo lavorativo nonostante il massimo dei voti alla laurea così, con la sfacciataggine di una ragazzina, dissi che avrei accettato l’incarico a patto che qualcuno però mi insegnasse il mestiere perché non avrei saputo da che parte iniziare. Fortunatamente, venni affiancata da due coordinatrici storiche di quei micronidi privati della Valpolicella e imparai tanto. Ma avevo già tanto, perché l’università mi aveva aperto non solo alla formazione ma anche alla possibilità di trovare degli ostacoli nel mondo del lavoro.

Educatrice ma non solo dato che sei anche pedagogista e mental coach…
Ad oggi sono anche pedagogista quindi faccio consulenze pedagogiche private in studio per famiglie o singoli individui, ma sono anche al servizio di enti tramite cooperativa. Ho deciso di non privarmi nemmeno dei Servizi Zerosei, i servizi educativi e di istruzione integrati che coprono i primi sei anni di vita di un bambino, dalla nascita fino all’età della scuola dell’infanzia. Il pedagogista è sì un professionista esperto di educazione, formazione e sviluppo umano ma può fare anche tante altre cose oltre ai progetti educativi e mi riferisco, per fare alcuni esempi, all’ambito della prevenzione del disagio sociale o della formazione aziendale.
L’operato del pedagogista ha ricadute pesanti sugli utenti dei servizi, ne consegue che bisogna essere sempre molto attenti: significa metterci la faccia tutti i giorni. Se si sbaglia si paga sulla propria pelle perché ci si porta a casa anche l’errore. Questo tipo di lavoro influisce sulla vita privata del professionista che lo esercita. Su questo aspetto ho sempre posto un’attenzione particolare, tanto da farne argomento per la mia tesi magistrale.
Per dieci anni ho praticato il karate a livello agonistico, che ho dovuto abbandonare una volta giunta a Verona. Così, ho deciso di tornare nell’ambito sportivo in una veste professionale da mental coach sia privata, sia sportiva al servizio delle squadre o dei singoli atleti. Seguo alcune realtà della pallavolo veronese ma anche l’Accademia Nazionale di Tiro a Segno a Bolzano, una realtà che mi appartiene da ormai undici anni. Svolgo incontri sia online che in presenza, faccia a faccia con l’atleta che può essere ancora adolescente o un atleta già formato: quello più giovane all’inizio ha paura ma poi si lascia andare, mentre con quello già affermato bisogna entrare in punta dei piedi, va creato un legame di cura che non è una cosa da poco. Loro si aspettano delle risposte ma noi non diamo risposte. Li mettiamo di fronte ai loro muri interni contro i quali devono andare a sbattere e fa male, è faticosissimo. Dico sempre che alcune sessioni sono peggio degli allenamenti stessi. Alcuni coachee, addirittura, preferiscono stoppare la sessione perché si sentono fisicamente affaticati.
Quella sportiva è una realtà in cui c’è bisogno non solo della formazione fisica ma anche di quella mentale. Ci sono tanti bravissimi allenatori che però non sono educatori ma va sempre ricordato che la cura e l’attenzione per la persona devono venire prima dell’attenzione al risultato e alla performance. L’atleta ha uno staff che allena tutti i giorni la sua parte motoria ma, per tutta la sfera personale la questione è più difficile. È qui che subentriamo come figure “ombra” perché se la testa non seguo il corpo o il corpo non segue la testa, allora c’è qualcosa che non funziona. Ad oggi, tutti i grandi atleti hanno un mental coach dietro. Nello sport c’è una maggiore disponibilità a rivolgersi a dei professionisti della cura perché esiste una vera e propria cultura della persona, ma devo dire che anche nella sfera privata ci si sta aprendo sempre di più.
In tutto ciò, ho anche scritto un libro che è uscito a ottobre scorso, una mia autobiografia sul cambio di vita dovuto al mio cambiamento di peso.

Come riesci a gestire tutti questi impegni?
Indubbiamente un’organizzazione in slot orari, con alcuni impegni che riesco fortunatamente a gestire nel fine settimana, sempre spalleggiata da chi mi aspetta a casa, che sa quanta passione e cuore metto nel mio lavoro.

Riavvolgendo il nastro dei ricordi a quando eri ancora studentessa Univr, cosa ti porti dietro da quegli anni e cosa ti sentiresti di dire a chi sta ancora studiando?
Dall’Università di Verona mi porto tantissimo ma una cosa in particolare che, all’inizio, mi spiazzò: nei corsi che ho frequentato ho sempre lavorato molto con i project work di gruppo. Io, da figlia unica, timida e reduce da anni di bullismo subiti quando avevo una forma di obesità grave, mi portavo dentro una serie di insicurezze e mettersi in gioco, soprattutto con altre ragazze, non è stato facile. All’inizio è stata una costrizione che però io accolsi come una sfida. Il saper lavorare in sinergia con gli altri da studente così come da professionista, soprattutto quando non ci si conosce e si hanno background diversi tra loro, è di fondamentale importanza. Tutto questo me lo porto dentro con il cuore pieno.
L’università di Verona mi ha insegnato, quindi, a saper stare e saper lavorare con gli altri e questo me lo tengo stretto, insieme a tutte le nozioni e alla formazione altamente qualificata che mi è stata data.
Ai laureandi e agli studenti, ma anche ai futuri studenti dell’Università di Verona consiglio di buttarsi, al 101%. La paura c’è sempre perché gli esami fanno paura, i voti fanno paura, ma l’università non è solo questo, è tanto altro. Per me è stata più una scuola di vita che altro, ti mette di fronte al fatto che ci sei tu, i tuoi obiettivi di vita – che possono anche cambiare col tempo perché si evolve, si cresce e si fallisce – per questo ci vogliono tanta motivazione e tanta perseveranza e resilienza. All’università ci formiamo per essere la versione migliore di noi stessi, la miglior versione di quello che vogliamo essere.

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