Veronica Ceradini ha un passato da studentessa di Scienze motorie all’Università di Verona e oggi è segretario regionale per il Coni a Bolzano. Prima dell’esperienza istituzionale, Veronica si è distinta per la sua carriera da rugbista che l’ha portata a vestire anche la tanto sognata maglia azzurra della Nazionale.
Ciao Veronica, parlaci un po’ di te…
Io vivo a Verona ma lavoro a Bolzano, sono segretario regionale per il Coni. Per lavoro mi sono dovuta spostare un po’ per l’Italia, da Verona a Padova, da Brescia a Mantova e poi a Bolzano; si può dire che ho girato abbastanza. A volte doversi muovere in continuazione mi pesa, ma credo che sia anche una delle maggiori opportunità di crescita perché tutto quello che è viaggio è sempre da accogliere in maniera positiva.
Sono stata giocatrice di rugby, ora invece di tennis. Sono convinta che, come nel lavoro, anche nello sport il cambiamento sia positivo.
Il mio percorso è partito con alcuni progetti sportivi quando ero a scuola ed è poi continuato con la laurea e il master all’Università di Verona. Un percorso che alla fine mi ha portato, un po’ per caso, a sedermi dietro una scrivania.
Praticare sport aiuta anche nel lavoro?
Sicuramente lo sport aiuta nei momenti difficili. Mi spiego meglio: lo stare in campo, qualsiasi sport tu faccia, ti abitua a una pressione. Qualcuno indica questa pressione come un privilegio ed è molto simile in campo quanto nella vita, nel lavoro, nello studio. La ricerca di quella pressione, che per gli sportivi è abbastanza normale, ti porta poi a migliorare sempre in tutti gli ambiti della vita. Non ti senti mai arrivato, ti senti sempre in tensione verso qualcosa di meglio. Quindi sì, lo sport influenza tantissimo gli altri ambiti.
Hai raggiunto anche risultati sportivi notevoli, parlacene un po’.
Sì, a casa ho qualche medaglia ma anche qualche maglia, di recente ne ho anche messa una in cornice. Sono stata fortunata ad avere avuto la possibilità di giocare in una squadra di alto livello a Venezia: un’esperienza impegnativa perché, come tutte le cose belle, richiede anche lavoro, ma sono stata ripagata dalla fortuna di aver vinto qualche campionato. Non sono mancate, certo, le difficoltà: ho dovuto superare un infortunio e tornare poi in campo, cercando di mantenere sempre uno spirito positivo con un occhio al mio grande obiettivo, cioè la maglia azzurra. Sono stata selezionata dalla Nazionale Italiana femminile di rugby nel 2004 per la prima volta e l’ho vissuta per l’ultima nel 2008, nella storica vittoria contro la Scozia al Sei Nazioni.
Come è stata la tua esperienza universitaria?
L’esperienza al liceo non mi era piaciuta tanto, mentre all’università ho trovato il mio ambiente. Noi a Scienze motorie eravamo un gruppo piccolo, quindi c’era anche tanto rapporto di convivenza tra compagni di corso. Con l’obbligo di presenza stavamo in università praticamente dalla mattina alla sera, era quindi importante organizzarsi per poter studiare. Questo vivere tutti insieme è stato un fattore molto positivo. Ricordo gli anni di studio come un bellissimo periodo, di crescita forte sia dal punto di vista organizzativo personale, sia dal punto di vista della conoscenza. Ho incontrato compagni di corso che lavorano oggi per realtà importanti, persone con obiettivi molto ambiziosi. Inoltre, l’università ci ha sempre messo a disposizione tutto il necessario per fare attività sportiva: spazi, palestre e strumentazioni tecniche.
Come mai questo percorso di studi?
Mi è sempre piaciuto lo sport, ne ho sempre praticato, di qualsiasi genere. Uno dei motivi che mi ha portato alla scelta del corso di laurea è stato sicuramente un insegnante delle medie che ho avuto. Aveva una passione pazzesca per l’insegnamento ai ragazzi e nel trasmettere la volontà di fare movimento, non tanto per diventare campioni, ma per portare chiunque a essere una persona attiva con un obiettivo e un impegno fisso da rispettare, seguendo la routine tipica di qualsiasi sport.
E perché proprio il rugby?
Sicuramente per un motivo di vicinanza. Infatti, a casa mia, San Pietro in Cariano, c’è una società storica di rugby. L’occasione è stata quella di un corso di rugby a scuola dove ho provato questo sport per la prima volta. Lo stesso pomeriggio andai al campo dove incontrai un allenatore sudafricano che all’epoca lavorava per quella società e mi affascinò il modo che aveva di gestire le persone in campo, di farle crescere, di insegnare. Così sono rimasta, ho fatto la mia prima stagione e poi ho preso il via.
C’è un aspetto del rugby che torna utile anche nella vita quotidiana?
Lo sport in genere ha questo fil rouge, cioè l’impegno per il conseguimento di un obiettivo. Nel rugby questo aspetto si manifesta nell’immediato perché ti fa collaborare con gli altri per andare avanti con la palla. È fondamentale essere a disposizione degli altri per andare nella stessa direzione, e questa penso sia un delle cose più belle. L’altro aspetto è sicuramente l’essere disposti al sacrificio per un fine: io scelgo di non avanzare più per permettere a te di andare avanti. Il rugby, da questo punto di vista, è un po’ una scuola di vita, nel senso che spesso nel mondo attuale si è concentrati più su sé stessi che sulla collettività. Accettare di perdere in prima persona qualcosa affinché la squadra guadagni è uno degli insegnamenti più profondi che ti porti via dal campo.
Come vedi il panorama rugbistico italiano?
Negli ultimi dieci anni questo sport ha avuto un boom di visibilità pazzesco in Italia, grazie alla trasmissione delle partite e agli investimenti fatti sulla comunicazione. Non a caso, adesso vedo una buona apertura. Quando uno sport è mediaticamente molto esposto coinvolge un pubblico sempre più vasto ed è qui che possono nascere potenziali nuovi giocatori.
Sicuramente è una disciplina “dura” e che “non perdona tanto”, bisogna essere preparati per andare in campo ma, allo stesso tempo, non servono particolari doti fisiche perché ci sono diversi ruoli che richiedono caratteristiche differenti. Insomma, tutti possono ritagliarsi il proprio spazio e credo che in futuro il rugby sarà praticato sempre di più. Anche a livello universitario ci sono le opportunità per affacciarsi a questo sport: ho vissuto un’esperienza da giocatrice e da allenatrice anche con il CUS di Verona e devo dire che partecipare a competizioni come i Campionati Nazionali Universitari (CNU) rappresenta un’esperienza pazzesca.
Il momento più emozionante della tua carriera sportiva?
Il mio primo inno nazionale. Ricordo che volevo cantare ma la voce non mi usciva per via dell’emozione. A livello personale è un punto di arrivo ma anche di partenza: quello che hai fatto rimane alle spalle, il contesto internazionale è tutt’altra cosa.
Cosa consigli a chi studia e pratica sport?
Penso che la cosa che può aiutare di più sia la passione. Nel momento in cui scegli una cosa che ti piace, la fatica non la senti. Quello che mi sento di consigliare è di non mollare mai lo sport. Ovviamente lo studio viene prima, ma l’attività fisica aiuta tantissimo soprattutto a livello organizzativo perché ti dà dei ritmi e dei tempi da rispettare. Nel momento in cui stai studiando, lo sport è anche una valvola di sfogo per la pressione e un aiuto nella sua gestione.
Anche in prossimità degli esami, che sono dei veri e propri traguardi, serve arrivare preparati e lo scoglio più difficile è presentarsi e riuscire a gestire la pressione che si avverte. In questo lo sport sicuramente aiuta: organizzazione e pressione diventano più gestibili se sei abituato a gestirli quotidianamente.