“Sono partita per la Lituania il 28 Gennaio 2020. Vivo a Vilnius più di 70 giorni. Era il 16 Marzo 2020 quando, al fine di poter controllare il contagio da COVID-19, il Governo lituano ha dichiarato la quarantena sull’intero territorio nazionale. A differenza di altri Paesi, siamo ancora liberi di uscire, obbligatoriamente con la mascherina e in gruppi di non più di due persone. Ma alla fine poco cambia, perché là fuori di aperto non c’è niente, se non supermercati e farmacie. I confini nazionali sono chiusi, nessuno può entrare e nessuno può uscire, salvo per chi torna al proprio Paese d’origine.

Ma che fare quando quel Paese è tra i primi al mondo per numero di contagi e decessi? È davvero una buona idea tornare a casa? A questo punto, quel che è giusto o sbagliato è estremamente soggettivo.


Quel 28 Gennaio l’Italia contava solo 2 casi di Coronavirus. Sono partita con un bagaglio pieno di curiosità, di voglia di esplorare, di conoscere persone da tutto il mondo per poter entrare in contatto con culture e tradizioni diverse; volevo divertirmi, sperimentare la vita universitaria all’estero e pensare a nient’altro se non al fatto che stessi vivendo l’esperienza più bella della mia vita.


Le prime settimane non le dimenticherò mai: ho conosciuto tantissime persone delle più svariate nazionalità, e quando loro mi chiedevano “E tu? Da dove vieni?”, io rispondevo con fierezza “Sono italiana”. Ma con il passare dei giorni e l’aumento esponenziale dei casi di contagio del virus in Italia, la fierezza è diventata quasi paura. Paura di essere sentirsi a disagio, paura di un rifiuto, paura di far paura. Quando le persone hanno paura, la parte irrazionale scavalca quella della ragione, e porta generalmente a creare pensieri come “Sei italiano? Sei inevitabilmente portatrice del virus”. E a rincarare la dose c’è che stiamo vivendo una pandemia mondiale ai tempi dei social che, con il loro potere di distorcere la percezione della realtà e del pericolo, influenzano i comportamenti umani.

Nel primo periodo di soggiorno all’estero, tutti andavamo avanti con la nostra vita tra università, studio, cene con gli amici, feste ed eventi, cercando di vivere al meglio. Ma lo sguardo degli italiani non l’aveva nessun altro, perché a casa nostra la vita si stava gradualmente bloccando, quasi già a presagire quello che prima o poi si sarebbe verificato anche qua.


In Lituania ci sentivamo al sicuro, e poi eccolo là, il primo caso di contagio; poi il secondo, il terzo e così via. Oggi il numero dei contagi è di quasi mille persone e noi ci siamo tutti resi conto che non c’è più differenza tra una nazione e un’altra. Il mondo è un unico grande Paese. La preoccupazione nei nostri occhi  adesso appartiene anche a tutti gli altri.


E scrivendo questa breve testimonianza mi sono accorta che, alla fine, nonostante la piega assurda e inimmaginabile che ha preso questa esperienza Erasmus, la lezione più importante l’ho colta lo stesso: la diversità nazionale, culturale o sociale che a volte ci fa sentire distanti, non cambierà mai il fatto che siamo tutti, indistintamente, esseri umani e, in quanto tali, vulnerabili.”

Micaela, studentessa di Lingue e culture per l’editoria
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