Il giro del mondo a piedi continua… in Ecuador

“Qua fa freddissimo, la notte soprattutto, si gela”

“Cavolo… Ma… Freddo, freddo quanto? Che temperatura?”

“Eh, freddo forte amico, la notte arriva a 15 gradi!”

“…”

L’Ecuador è una strana terra. È uno stato ricco con gente povera che si diverte ballando musica triste. Il paese siede a cavalcioni sulla linea dell’equatore ma anche qui c’è diritto al freddo, quindi per i suoi abitanti è lecito battere le brocche con dieci gradi. Ah, un’altra cosa: a nessuno piace camminare. Quando chiedo quanto ci voglia per arrivare al mercato, mi dicono che è lontano, lontanissimo, devi prendere un mototaxi. Ma lontano, quanto lontano? Uuuh a piedi fino a la saranno cinque, anche dieci minuti! 

Sorrido, che altro dovrei fare? Confermo che andrò a piedi e mi diverto a vedere le loro facce stupite quando spiego perché non prendo mezzi: sto facendo il giro del mondo a piedi.

Mi chiamo Nico ed un anno fa sono partito per realizzare il mio sogno. Perchè proprio a piedi? Quando si viaggia si cerca qualcosa che normalmente non riusciamo ad afferrare, un elemento che sfugge alla quotidianità e che per questo diventa tanto prezioso quando lo troviamo. Lentezza, se penso a qualcosa che manca nella vita di tutti i giorni è: lentezza. É la chiave per accedere ad un contatto speciale con luoghi e persone, è la qualità che permette di costruire storie ed esperienze che un giorno si chiameranno ricordi. Camminare è il modo più naturale per spostarsi da un luogo all’altro, si avanza ascoltando il ritmo del corpo, seguendo quello del giorno: perchè non avviarsi così, alla scoperta del nostro pianeta?

Il 9 Agosto del 2020 ho chiuso la porta di casa dietro di me e cominciato a camminare: nei primi caldi ed assolati giorni in Italia ho attraversato Pianura Padana ed Appennino Tosco-Emiliano, all’altezza del passo del Lagastrello. Mi sono poi diretto lungo la costa ligure fino a giungere al confine francese, passando Ventimiglia e proseguendo lungo la riserva della Camargue ed il Canal du Midi, un magnifico canale fluviale che taglia la Francia collegando Mediterraneo ed Oceano Atlantico.  A seguire, i Pirenei, i 30km più duri di tutta l’Europa. Arrivato in Spagna, ho percorso il Cammino di Santiago e la Via de la Plata fino a Palos de la Frontera, città dalla quale mi sono imbarcato per le Canarie alla ricerca di un passaggio in barca per le Americhe

Dopo un mese di ricerche, sono riuscito a trovare un catamarano di 12 metri ed ho attraversato l’Atlantico in un lunghissimo mese di alienante distacco dal mondo umano. L’equipaggio si è sciolto all’arrivo, proseguo da solo alla volta di Panama, dove collego gli Oceani Atlantico e Pacifico camminando lungo l’istmo. In questo modo, è come se il cammino interrotto in Spagna fosse ripartito, senza interruzioni, dall’altro lato del mondo

Giungo a Quito verso la fine di marzo 2021, sono più di sei mesi che ho lasciato casa, a Vicenza. L’arrivo alla capitale ecuatoriana è il migliore che potessi sperare perché sono ospite da una famiglia che mi spiega storia, geografia, politica ed usi e costumi del loro paese – regalandomi anche qualche informazione sul resto del continente. Ho incontrato Alejandra, Melissa e Caro su Couchsurfing, una piattaforma che permette a chi ha un divano libero di ospitare i viaggiatori come me, in cerca di un contatto immediato ed autentico con la realtà locale. È grazie a loro che comincio a familiarizzare con le dinamiche latinoamericane e quando, dieci giorni dopo, lascio la loro casa per incamminarmi verso sud, sono molto più tranquillo e pronto ad affrontare i 7000km che mi separano da Santiago del Cile, la meta di questo continente.

Prima di scendere, però, mi concedo 250km di passeggiata a nord, alla volta di Otavalo, Ibarra e Cayambe, nel pieno delle Ande Ecuatoriane. Le ragazze me ne avevano parlato con occhi sognanti, quindi decido di esplorare la regione. Ad un paio di giorni di cammino da Quito, il paesaggio cambia, lasciando emergere colossi di quattro e cinquemila metri di fianco alla strada: sono il ghiacciaio Cayambe ed il picco Imbabura. Le Ande cominciano a stregarmi e mentre giro lentamente attorno all’Imbabura – mi ci vogliono quasi due settimane – faccio conoscenza dell’ospitalità e della cucina andina, un mix di patate, yuca e stranezze come il porcellino d’india! Scavallo un paio di volte il parallelo zero, poi torno verso Quito e proseguo il cammino verso il vulcano Pululahua, dove mi fermo a campeggiare. Lo sapevate che è uno degli unici due vulcani al mondo con un villaggio al suo interno? Nel gigantesco cratere regna una pace immensa, i contatti con l’esterno sono ridotti al minimo: l’unica strada che scende al pueblo non è asfaltata e le reti cellulari non prendono. È un posto perfetto per stare con se stessi.

Lascio il vulcano una settimana dopo, con una vena di malinconia, ma sento che il cammino mi chiama. Comincio la vera e propria discesa, passando da 2800 metri al livello del mare in pochi giorni, fino a toccare l’oceano stesso, all’altezza di Manta, il porto sul Pacifico più grande del paese. Qui un violento mal di stomaco frutto di un ceviche non proprio fresco mi blocca per qualche giorno; è la prima volta che sto veramente male da quando sono partito e tutto sommato fino ad allora mi era andata di lusso. Fortunatamente ho un posto dove stare, così in un paio di giorni riesco a recuperare le forze e ripartire.

Piano piano, cammino lungo la costa, scendendo la Ruta del Spondylus. La strada prende il nome dall’omonima conchiglia, lo Spondylus, che nell’America precolombiana aveva una valenza sacra. Quando cambiava il clima e si avvicinava la stagione delle piogge, questa conchiglia arrivava alla costa, segnando l’inizio della stagione della fertilità – dunque, nuova vita. Ancora una volta, sono stupito dall’ospitalità ecuatoriana: quando chiedo se posso mettere la tenda nei pressi di una casa, la risposta affermativa arriva già al primo, massimo secondo tentativo. Il Manabi – così si chiama questa regione – è famoso anche per la cucina. A parte il ceviche, che ora evito con gran attenzione, qui si prepara l’encebollado, una sorta di zuppa di cipolle, pesce e… Arachidi! Il frutto viene messo un po’ in tutti i piatti e dopo l’iniziale perplessità, l’abbinamento mi conquista. 

Arrivato a Santa Elena, giro verso est alla volta di Guayaquil, seconda città del paese. Per qualche giorno mi accoglie Marcelo, conosciuto durante l’Erasmus in Spagna. Mentre chiacchieriamo di fronte all’ennesima, squisita zuppa di pesce, mi dice che alle Galapagos stanno vaccinando in massa. Potrei avere un’opportunità, magari qualcuno rinuncia e rimangono dosi disponibili. L’idea mi alletta e ovviamente un giro alle Galapagos dev’essere tutto fuorché brutto. Marcelo mi informa che parte della sua famiglia è lì e che potrebbe ospitarmi per tutta la permanenza. Non ci penso più di tanto: il pomeriggio stesso prenoto il volo per le isole. Prima di andarci, però, passo da un’altra vecchia conoscenza, Juan Pablo, incontrato in Australia mentre lavoravo a Melbourne. La sua famiglia, neanche a dirlo, mi accoglie come un figlio e sento di essermi definitivamente e perdutamente innamorato di questa terra e delle sue genti. Il padre, Pablo, mi passa una lista di piatti nazionali che devo assolutamente provare. Scorro l’elenco assieme a lui, spuntando i cibi già provati. Con una nota di orgoglio, concludo di essere oltre la metà e Pablo si propone di aiutarmi facendomi provare altre specialità finché sono a casa loro.

Debitamente rifocillato, prendo il volo per San Cristobal, Galapagos. Dopo essermi installato a casa di Vilma, Alejandra e Rosalia, vado a fare la coda per il vaccino, ma ricevo un due di picche. Fortunatamente, il giorno successivo ha un lieto fine e riesco a vaccinarmi. Per ricevere la seconda dose la permanenza sull’isola si allunga a  quattro settimane, cambiando ancora una volta i piani che avevo in mente. Poco male, ho tempo di recuperare le forze e quando torno sulla terraferma sono pronto per ripartire verso il Perù. Attraverso la provincia di El Oro, una gigantesca piantagione di banane a perdita d’occhio, e giungo a Zaruma. Da qui, scendo verso il confine di Lalamor, dove giungo a metà luglio. Nel frattempo, il visto ecuatoriano è scaduto ed il suo rinnovo mi ha fatto riflettere sul leitmotif di questo viaggio: la lentezza. 

Pensavo di fermarmi in Ecuador un mese, il tempo di attraversarlo lungo 1000km di cammino. Ora che ne esco, mi guardo indietro e vedo quattro mesi e decine di storie che hanno arricchito un percorso molto più intenso di quanto potessi immaginare. Ci sarebbero decine di storie da raccontare: il piacere di scambiare quattro chiacchiere nella nostra lingua con i ragazzi di Operazione MatoGrosso incontrati lungo la costa manabita; la disponibilità di Christian prima e Luca poi, che mi danno un tetto durante i weekend di lockdown totale; i consigli di Jilmar, che portano un cambiamento radicale nella distribuzione delle energie durante le giornate di cammino; le creme al mentolo di Ianela e Pato, che ancora oggi, in Perù, alleviano la tensione dei tendini stressati. 

La lentezza è stata la chiave per scoprire le persone che hanno arricchito questo viaggio, rendendolo un’esperienza ricca di insegnamenti e ricordi piuttosto che una guida turistica dei posti più belli dell’Ecuador. Mi avvicino al Perù grato per le settimane passate qui, un tempo meraviglioso che mi ha portato ad innamorarmi sinceramente di queste terre.

Il giro del mondo a piedi prosegue alla volta del Perù, il cui confine terrestre è ancora chiuso… Come farò ad attraversarlo?

Se volete camminare con me attorno al mondo, seguite @pieroad____ su Instagram!”

Nicolò, laureato in Economia aziendale
Instagram: @pieroad____

Computer grafica: dalla mia passione alla “Miglior tesi magistrale”

“Quando il relatore mi propose l’argomento della mia tesi magistrale, ne fui subito entusiasta. Il principale motivo per cui mi ero iscritto al corso di laurea in Ingegneria e Scienze informatiche era stato proprio quello di poter lavorare in ambito di Computer grafica, una disciplina affascinante. Una volta trovatomi verso la fine del mio percorso di studi, potevo finalmente affrontare un tema di ricerca recente in quel settore: l’inverse spectral geometry. Il mio obbiettivo era quello di generare un qualsiasi oggetto 3D a partire dal suo “suono”, come per esempio la forma di un tamburo partendo dal semplice suono emesso dallo strumento.

Dopo una prima sessione di brainstorming con il relatore e il correlatore, iniziai subito a lavorare agli esperimenti carico di aspettative. Collezionai i dati su cui testare il mio metodo, definii il modello di rete neurale necessario a risolvere il problema, scrissi il programma per eseguire gli esperimenti e infine li feci partire.

Non sempre i risultati ottenuti erano quelli sperati, ma grazie al supporto del mio relatore e correlatore e a una buona dose di volontà riuscii a ottenere quello che volevamo.

Una volta terminati gli esperimenti, passai alla parte per me più noiosa e meno emozionante: la stesura su carta del frutto dei miei mesi di studio. Alla fine completai il lavoro con il titolo: “Data-driven inverse spectral geometry: learning to generate shapes from multi spectra”.

Essere arrivato alla fine del mio percorso di studi universitari con una tesi di cui andare fiero, era per me già un traguardo enorme; rappresentava la ricompensa di tutte le fatiche passate durante i precedenti anni di studio ed esami. Quando poi, 3 mesi dopo la proclamazione della mia laurea, ricevetti per email la notizia di aver ottenuto il premio “Matteo Dellepiane” per la miglior tesi magistrale in Computer grafica, feci fatica a crederci. Avevo inviato la candidatura qualche giorno dopo il conseguimento del titolo, sotto consiglio del mio relatore e del mio correlatore, senza però troppe speranze. Invece, i miei sforzi vennero apprezzati anche dalla comunità di Computer Grafica Italiana. Questo è per me il miglior riconoscimento mai ottenuto.

E anche dopo aver presentato la mia tesi durante la premiazione di STAG 2021, ancora non me ne rendo conto.

Riguardando il percorso che mi ha portato a questo momento di profondo orgoglio, provo molta gratitudine nei confronti delle persone che mi hanno sostenuto durante il mio percorso di studi, dalla mia famiglia e amici al mio relatore e correlatore. Spero che questo possa essere per me l’inizio di un produttivo percorso di ricerca in quella che è sempre stata la mia compagna di viaggio: la Computer grafica”.

Marco, laureato in Ingegneria e Scienze informatiche

Instagram: @mpek639

Dove si colloca una filosofa? Cosa può dare o fare per una città? La mia maratona del Pensiero

“Nel corso degli studi può accadere di perdersi e faticare a trovare la strada che conduce al processo di emancipazione professionale. Pericolo ancor più incombente se si viene, come me, da un percorso di studi filosofico, perché ci si può smarrire nei vorticosi pensieri, aprirsi alle molte possibilità, senza però aver il coraggio di attualizzarne alcuna. Per questa ragione mi è stata di fondamentale importanza l’occasione del tirocinio universitario che l’Università degli Studi di Verona ci accorda, permettendomi di approfondire, verificare ed ampliare l’apprendimento ricevuto nel percorso degli studi e soprattutto darne poi un’immediata applicazione pratica orientata al mondo del lavoro.

Due le domande a cui cercavo risposta: Dove si colloca una filosofa? Cosa può dare o fare per una città? Il Festival Filosofi Lungo l’Oglio mi ha aiutato a rispondere a queste interrogazioni, a quale possa essere un’ubicazione di privilegio per la filosofia sul territorio da un punto di vista pratico. È stato proprio un certo desiderio di agire, di mettermi in gioco ad avermi spinta ad inviare la mia candidatura a questo ente, poiché credo in una filosofia pratica, che guarda alla persona e dunque alla polis.

Sono onorata di aver avuto la possibilità di collaborare a questa importante iniziativa filosofica-culturale-sociale, sia perché si tratta di conferenze di filosofia sostenute tra i più illustri pensatori del nostro tempo, sia perché tale Festival si muove nei territori a me più cari tra il Bresciano, Bergamasco e Cremonese, ossia in quei piccoli paesini della Pianura Padana in cui io stessa sono nata e cresciuta. Luoghi spesso emarginati al loro stato d’abbandono, ma che in questo Festival si sono resi protagonisti in un riscatto culturale e di comunità. Il Festival è, infatti, definito “nomade” poiché si innerva non solo in grandi città già perfettamente attrezzate ad accogliere eventi di questo tipo, ma predilige luoghi intimi, più piccoli spesso esclusi da ogni iniziativa: una scelta coraggiosa per un Festival di rilevanza nazionale.

Aver contribuito a portare la cultura nelle periferie è stato un compito complesso, ma del tutto soddisfacente. Ho compreso l’importanza del filosofo come agente di mediazione culturale: colui che occupa uno spazio interstiziale tra la società civile e le istituzioni, creando occasioni di scambi, contaminazioni e sinergie. Come mediatrice culturale il mio ruolo – insieme a quello del mio straordinario team – è stato promuovere il dialogo ed il confronto: gli unici strumenti e codici con cui è possibile aprirsi all’altro per creare nuovi simboli culturali condivisi. Lavorare filosoficamente in questi territori ha significato porre l’attenzione alle esigenze dei cittadini, soprattutto legate alla scomparsa di spazi comuni di interazione e di socialità.

Il Festival ha rimesso al centro la filosofia vitale e la periferia da un punto di vista storico, culturale e sociale, riportando le piazze – ormai svuotate sia da processi di decentramento urbanistico sia dalla pandemia – al loro antico vigore. È stato sorprendente ed emozionante osservare come la filosofia abbia una tale carica attrattiva, anche in quei paesini che ho sempre considerato pragmatici, duri, laboriosi e che avvertivo come realtà soffocanti. Ora, dopo il Festival li osservo sotto uno sguardo differente: quello della possibilità. Vedere le piazze gremite di gente per ascoltare di filosofia mi ha dimostrato quanto ci sia un reale bisogno di contenuti, di testimonianza, d’incontro. Qui si gioca la partita della filosofia: rispondere alle esigenze sociali straordinariamente concrete e problematiche.

Oltre la nobile missione del Festival, ciò che mi ha spinto fortemente alla candidatura a questo tirocinio è stata la figura della professoressa Francesca Nodari: direttrice scientifica del Festival Filosofi Lungo l’Oglio e presidentessa della Fondazione che sostiene il Festival. Una testimonianza che smentisce gli stereotipi correnti che vorrebbero le donne appiattite sulla loro immagine, piuttosto che sulla loro mente. La Sua storia come donna, filosofa e natia dei miei stessi paesini agricoli e provinciali, mi è stata da stimolo a rifuggire ad un certo vittimismo e paura che mi paralizzavano, incoraggiandomi a lavorare tenacemente per divenire protagonista della mia storia.

È stato un percorso e un lavoro di grande soddisfazione poter investire le mie competenze raggiunte in tanti anni di studio in un’istituzione così prestigiosa, operando proprio nei luoghi del padano, a cui nel bene e nel male sono debitrice. Inoltre, questa esperienza mi ha dato la misura e l’occasione di poter vedere effettivamente come il pensiero e la filosofia possano essere tradotti in prassi, per trovare una strada e dar forma al mondo in cui viviamo.

Il tirocinio universitario è stato una “maratona del pensiero”: un viaggio di conoscenza di me stessa e di riconoscenza verso i luoghi in cui sono nata, al mio esser donna ed alla filosofia”.

Paola, studentessa in Scienze Filosofiche

Instagram: @paolalovegood

Premio Andrea Vaona: un riconoscimento inatteso

“Quando, in una torrida mattinata siciliana di metà luglio, una e-mail proveniente dall’Università di Verona mi informava del conferimento del Premio Tesi di Dottorato in memoria di Andrea Vaona, ammetto di non aver pienamente afferrato, sul momento, cosa fosse successo. Avendo trasmesso la domanda di partecipazione svariati mesi addietro, su input di uno dei miei supervisor e in pieno spirito decoubertiano, ed essendo pienamente preso dai miei tanti impegni quotidiani, neppure ricordavo di essere “in lizza” per l’attribuzione di un premio. Va da sé che, una volta riannodate debitamente le fila della storia, sorpresa e soddisfazione sono emerse quali sensazioni prevalenti. Il pensiero che il mio lavoro, valutato da un collegio di docenti e ricercatori di rilievo, fosse stato ritenuto degno di un riconoscimento così ragguardevole, mi ha reso, una volta tanto, soddisfatto di me stesso – sentimento a cui non sono particolarmente avvezzo.

Il resto è cronaca più recente. Durante la mia due-giorni in terra Scaligera ho avuto modo, da un lato, di contemplarne alcune bellezze mozzafiato, in un pomeriggio di fine settembre semplicemente magnifico; dall’altro, il mattino seguente, di restare ammirato dalla sontuosità dell’edificio ospitante il Dipartimento di Scienze Economiche – all’interno del quale sono stato calorosamente accolto sia dal personale tecnico-amministrativo che dal suo Direttore e Vicedirettore.

Confesso che, nelle prime fasi della cerimonia di premiazione, malgrado fossi seduto in prima fila, ogni qualvolta veniva pronunciato il mio nome, la mia impressione era che si stesse parlando di qualcun altro – tanto era ancora radicato in me lo stupore per quanto accaduto. Senonché, nel momento in cui sono stato chiamato in causa per presentare agli astanti i risultati della mia ricerca, forse sospinto da quella stessa passione che aveva sempre animato Andrea Vaona, e vividamente rievocata dai familiari presenti, ho finalmente realizzato e tutto è proseguito per il meglio.

Di questa speciale vicenda, oltre agli innumerevoli attestati di stima ricevuti, porterò sempre con me le parole toccanti e lo sguardo della moglie di Andrea Vaona. Nei suoi occhi ho potuto cogliere un messaggio che – spero – fungerà da bussola per il mio futuro, non solo in ambito accademico: la memoria non si guadagna per ciò che si è materialmente realizzato; al contrario, come testimoniato dai tanti parenti e amici intervenuti all’evento, il merito del ricordo va ricercato nello spirito che guida il nostro agire e nella capacità di illuminare, lasciando anche solo un riflesso, col nostro entusiasmo, chi ci sta accanto”.

Antonio Francesco, assegnista di ricerca dell’Università di Palermo

Instagram: @afgravina

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione

“Sono Anna Polinari e sono una studentessa dell’Università di Verona, ma nella mia vita non c’è solo lo studio.

Pratico atletica leggera da 13 anni, all’inizio era solo un gioco, ma dopo i primi risultati a livello nazionale questo sport è diventato parte integrante della mia quotidianità.

Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di partecipare ad un’olimpiade, ma ero consapevole di quanto duro lavoro e sacrificio si nasconde dietro competizioni di così alto livello e non sapevo se ne sarei mai stata realmente in grado.

Crescendo però, la ragazzina tenace e determinata che era in me ha conquistato i primi podi ai campionati nazionali e varie convocazioni in maglia azzurra.

Nel 2021 – un anno pieno di soddisfazioni, tra il titolo italiano nei 400 m promesse, un buon piazzamento ai Campionati Italiani assoluti e un buon tempo cronometrico – quella convocazione ai giochi olimpici non sembrava più una cosa astratta.

Ero ad allenamento e stavo per cominciare uno dei miei soliti lavori di corsa quando il mio allenatore Fabio Lotti cominciò ad urlare “Anna sei stata convocata!”: la convocazione ufficiale per la staffetta 4x400m era arrivata e poter condividere la gioia del momento con i miei compagni di allenamento e il mio coach è stato magico.

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione mai vista.

Anche se non ho potuto correre la staffetta, in quanto riserva, il mio cuore e la mia testa erano in pista con le mie compagne. E le emozioni non sono mancate. La squadra italiana ha fatto cose eccezionali e, in particolare, l’atletica ha conquistato ben cinque ori. Questi risultati mi danno la consapevolezza che tutto è possibile e io ho ancora tanto da dimostrare… e non vedo l’ora di farlo”.

Anna, studentessa di Scienze delle attività motorie e sportive
Instagram: @annapolinari

Ho voluto osare e sono partita per un Dottorato a Oulu, in Finlandia

“Mi chiamo Chiara, ho 26 anni e il 12 marzo mi sono laureata in Molecular and Medical Biotechnology. Ottenere la laurea magistrale rappresenta un grande traguardo, ma come tutte le mete, una volta raggiunte, porta con sé un profondo senso di incertezza per il futuro. Decidere che strada intraprendere è difficile, specialmente in questo periodo storico governato da una pandemia brutale e capricciosa.

Nonostante ciò, ho sentito la necessità di osare, farmi beffa della situazione e iniziare il dottorato in un altro Paese. Grazie all’Università di Verona avevo già avuto un’esperienza all’estero, trascorrendo un semestre di scambio in Giappone, nella bellissima Kyoto e studiando al Kyoto Institute of Technology. È stata questa la scintilla che mi ha spinto a cercare un dottorato all’estero, che mi ha dato la forza. Attenzione, non dico con questo che un’esperienza all’estero vi renderà più sicuri di voi e che poi viaggiare e trasferirsi sia tutto rose e fiori. Al contrario, è un percorso pieno di insidie e richiede capacità di adattamento e sacrifici. Nonostante ciò, studiare presso l’Università di Verona mi ha fornito un’ottima formazione e base da cui partire, specialmente perché l’intero corso di Molecular and Medical Biotechnology è tenuto in inglese. La tesi magistrale che ho svolto presso il laboratorio di Biomacromolecular Chemistry è stata essenziale per ottenere la mia attuale posizione tra 90 candidati e per questo sono estremamente grata.  

Ora lavoro presso il gruppo di Protein and Structural Biology dell’Università di Oulu, città della Finlandia settentrionale, a ridosso del circolo polare artico. Oulu è una città tecnologica, dove la ricerca procede a passi veloci, ma allo stesso tempo è un’oasi immersa nella natura. La gente è rilassata e passa il tempo libero nei parchi, in spiaggia o andando in bicicletta. La mia ricerca mi sta dando tante soddisfazioni e sono contenta di aver avuto il coraggio di arrivare fino a qui. Non per niente si dice che la fortuna aiuta gli audaci!”

Chiara, laureata in Molecular and Medical Biotechnology
Instagram: @chii.ra

Il mio Erasmus in Finlandia con il Covid: una vittoria indelebile

“Allora, cosa ti porti a casa da questa esperienza?”. Era questa la domanda che, durante l’ultima settimana del mio Erasmus, circolava incessantemente negli appartamenti, nei corridoi dei palazzi e negli spazi aperti di Kortepohja, il famoso quartiere che ospitava la maggior parte dei ragazzi che avevano scelto la città finlandese di Jyväskylä come meta del loro viaggio-studio. La questione non trovava facile risposta: le consapevolezze e le emozioni che sollevava erano parecchie e quasi inesprimibili a parole. Eppure, io non avevo dubbi circa l’insegnamento più prezioso che quei cinque mesi in Finlandia mi avevano trasmesso e che sarebbe rimasto con me per sempre: se si ha la forza di guardare in maniera diversa alle cadute che inevitabilmente si presentano nel corso della vita, non solo esse possono essere superate, ma possono anche diventare occasioni di luminose risalite.

La mia avventura non iniziò nel migliore dei modi: dopo tre settimane dall’arrivo nell’affascinante Paese nordico e dieci giorni di quarantena, in una fase oscillante tra ambientamento e solitudine, contrassi il Coronavirus. L’evento rappresentò un problema non da poco: la quasi totalità degli studenti accettati si era ammalata e nessuno sapeva, a fronte di un inatteso focolaio di contagi scoppiato in città, quali sarebbero state le conseguenze di tale imprevisto; inoltre, l’infinito buio invernale, la mancanza di dimestichezza con i luoghi e con lo stile di vita, il non avere ancora attorno persone fidate su cui contare e da cui poter ricevere aiuto, fomentavano il senso di disorientamento e preoccupazione. Sentivo dentro di me il peso di una profonda sconfitta: evidentemente, come molti giudicavano prima della mia partenza, avevo sbagliato a lasciare casa in un momento storico così delicato come quello dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

A fronte dell’angoscia che pervadeva le mie giornate in isolamento, pensai di rientrare in Italia non appena fossi guarita: sembrava questa la soluzione migliore, perché l’incerta atmosfera non consentiva di dare per scontata l’esistenza di un seguito positivo. Interrompere la faccenda sul nascere, sfuggendo in questo modo anche alle eventuali ulteriori sfide che si sarebbero prospettate

dopo la prima, rappresentava la via più comoda da imboccare; ma valeva davvero la pena lasciarsi atterrare dal primo ostacolo, per quanto arduo, e buttar via lo scenario di un periodo di vita e studio all’estero che tanto avevo desiderato? Conveniva rinunciare alla grande opportunità che l’Università di Verona mi aveva regalato, permettendomi di assaporare un pizzico di normalità e libertà negateci dalla pandemia? Capii che questa non sarebbe stata la mia scelta: volevo restare e affrontare la difficoltà, per ripartire poi con maggiore convinzione e sfruttare al massimo quell’esperienza. Ecco che la cupa e critica situazione sopraggiunta si rivelò essere una possibilità di autentica rinascita, una fertile occasione per il fiorire di potenzialità sopite in tempi di ordinarietà: solo grazie alle turbolenze in cui ero incappata, infatti, realizzai quanto fossi fortunata a poter svolgere il programma Erasmus nonostante tutto, e fui veramente pronta ad aprirmi e ad accogliere con entusiasmo ciò che mi attendeva. In effetti, una moltitudine di successi iniziarono successivamente a balenare per me: uscendo dalla mia zona di comfort e immergendomi completamente in un ambiente e in una cultura così diversi dai miei, potetti osservare fenomeni incredibili, come l’aurora boreale o il sole di mezzanotte, scoprire luoghi incantati, come gli innevati e silenziosi paesaggi della Lapponia, e provare attività elettrizzanti, come le immersioni post-sauna nel lago ghiacciato; strinsi intense amicizie e, misurandomi con diverse ed interessanti mentalità, imparai molto nel dialogo costante con l’altro; ebbi modo, per quanto riguarda l’aspetto universitario, di confrontarmi con materie e metodologie didattiche diverse, ricevendo freschi ed importanti stimoli che hanno contribuito ad ampliare la mia formazione.

Partire per l’Erasmus e rimanerci è stata quindi la decisione vincente. Devo ammettere, però, che questa non fu frutto soltanto dei miei pensieri: ad infondermi coraggio furono i miei cari, il Referente del Corso di Studi, la Referente alla Mobilità Internazionale di area filosofica e diversi docenti, i quali, insieme al personale dell’Ufficio per la Mobilità Internazionale, si prodigarono per supportarmi e tutelarmi, riflettendo assieme a me e rassicurando la mia famiglia. Desidero ringraziare sinceramente i miei professori, non solo per non avermi mai fatta sentire sola in questa sfortunata circostanza, ma anche per avermi motivava ad intraprendere un percorso di mobilità: anche con tutti gli inconvenienti del caso (anzi, soprattutto con questi), rifarei innumerevoli volte questa esperienza, perché, facendomi oltrepassare pregiudizi e paure, mi ha permesso di incontrare nuove e ricche realtà, di conoscere più a fondo me stessa e di crescere sotto parecchi punti di vista. Dirò qualcosa di scontato, ma in cui credo fermamente: l’Erasmus ti cambia la vita!”

Lucia, studentessa di Scienze Filosofiche
Instagram: @squillantelucia

La filosofia per i bambini: aspetti essenziali per il ben-essere di ciascuno

“Mi chiamo Sara, ho 36 anni e a dicembre scorso mi sono laureata in Scienze della Formazione Primaria con una tesi intitolata “Philosophy for Children: una pratica per la Comunità di Ricerca nella scuola primaria”. Dire in poche parole cosa sia la Philosophy for Children non è cosa facile. La P4C è stata definita una “forma di vita”, unica e indicibile, un luogo da abitare quindi più che un oggetto da descrivere. Per questo ritengo più facile raccontare cosa sia stata questa esperienza formativa.

Innanzitutto, la Philosophy for Children rappresenta per me un approccio per curare aspetti che considero essenziali nella vita e nel ben-essere di ciascuno: l’empatia, la padronanza delle emozioni, la loro espressione, la capacità di credere in sé, di gestire le relazioni, l’amore e l’affetto. Per chi come me ha potuto incontrare e conoscere il mondo dell’infanzia sa come questi valori influenzino enormemente la crescita e gli apprendimenti. Le strade della mia vita mi hanno condotta in diversi modi alla vicinanza con bambini e adolescenti: durante l’anno di servizio civile, all’interno di associazioni di volontariato e nel mio lavoro come educatrice in una comunità familiare. Da queste esperienze ho imparato ad apprezzare il valore di un contesto di cura come motore di cambiamento individuale; la centralità della condivisione e del dialogo, come gioco a somma positiva; l’importanza di offrire ai bambini competenze autonome, critiche, riflessive. Negli anni, ho maturato la consapevolezza di voler dedicarmi all’insegnamento, riconoscendo l’importanza della figura del maestro nella vita del bambino, la sua vicinanza prolungata nelle giornate e negli anni cruciali per lo sviluppo. Fu proprio nel percorso di studi di Scienze della Formazione Primaria che conobbi il metodo della Philosophy for Children, dell’americano Matthew Lipman. Da subito mi sono scoperta affine al pensiero di questo autore, che spese la sua vita a impostare un innovativo curricolo scolastico. Ripensando con commozione ai momenti di convivialità trascorsi con i giovani, mi chiedevo se non avessi, in piccola parte, praticato anch’io la P4C, sognando come, forse, la passione dell’autore, raccolto nello studio della sua casa di Montclair, fosse stata simile alla mia. Così, iniziai le mie ricerche, partecipando ad alcune sessioni di P4C con adulti, nel contesto universitario padovano, e soprattutto con bambini, in una scuola primaria di Verona. Quello che osservavo era un potente strumento che garantisce pari opportunità all’interno del gruppo nell’esposizione delle proprie idee, una tecnica per sviluppare competenze espressive e relazionali, che favorisce i momenti di riflessione e le situazioni comunicative autentiche. Il dialogo maieutico ispirato a Socrate costituisce l’attività centrale di una sessione di P4C, che può diventare quindi il luogo dove i bambini interiorizzano l’etica del dialogo, imparando a pensare con la propria testa, a ragionare criticamente e creativamente. Il bambino che cresce e si forma in un contesto di democraticità non farà che riproporre lo stesso stile relazionale e comunicativo nella propria vita.

Nello scegliere l’argomento di tesi decisi di seguire il mio cuore, piuttosto che ragionare su quale professore fosse più disponibile, o di fare considerazioni pragmatiche sulle tempistiche di laurea. Ciò che contava era indagare un argomento di interesse, fare qualcosa che mi coinvolgesse e appassionasse. Una scelta che risultò condizionante nel determinare il tipo di insegnante che avrei voluto essere. Fu infatti durante il tirocinio di tesi sulla P4C che incontrai e lavorai assieme alla tutor Cosetta, una maestra motivata e scatenata che è per me modello di riferimento umano oltre che professionale. La sua carriera mi ha fatto capire come la P4C rappresenti un programma di formazione in primis per gli insegnanti coinvolti, un’occasione per ribaltare le modalità di conduzione frontale delle lezioni, la tanto obsoleta “trasmissività”. La scuola del terzo millennio necessita di riforme che infrangano in profondità vecchi e impliciti paradigmi. La P4C rappresenta un modo di apprendere circolare, democratico, collaborativo e co-costruito. Rappresenta uno “stile di vita” improntato alla ricerca e alla riflessività, che si fanno habitus del docente all’interno delle quotidiane azioni didattiche.

Ancora, il ruolo della P4C è stato estremamente valevole all’interno della Didattica a Distanza. Il setting digitale ha portato la P4C dentro alle case, nelle cucine e nelle camerette degli alunni. In un momento così tragico come quello della pandemia, che i bambini spesso hanno vissuto silenziosamente, la P4C ha rappresentato per loro uno spazio efficace di ascolto attivo e di auto-espressione, uno strumento per mantenere connessi gli alunni e le loro maestre, in uno spazio di dialogo e di cura, di rispetto e di comunione.

Frequentare il corso di SFP è stata una sfida immane: 6 anni di studi, tirocini sfiancanti, confronti, riflessioni sulla pratica di questo lavoro e su di me come persona. Il tutto continuando a lavorare nel sociale. La soddisfazione maggiore può ben dirsi quella di essere giunta al termine di un percorso tanto impegnativo. Una strada imboccata con leggerezza e quasi per sfizio, che ha condizionato in modo prepotente il mio futuro, così come, a volte, gli eventi più banali nelle nostre vite sono quelli che le influenzano maggiormente. Grazie a questa tesi di laurea ora ho vinto un concorso nazionale indetto dal CRIF, il Centro di Ricerca sull’indagine filosofica, che mi dà accesso ad una formazione estiva presso una “scuola di pratica filosofica”. Non posso non chiedermi quali strade questa esperienza ancora mi aprirà, come potrò spendere queste competenze. Nella vita facciamo tante esperienze, ciascuna colorata di sfumature calde o fredde, tenui o accese, dai toni cupi o vivaci.

Ognuna di esse ci aiuta a rivelarci ciò che siamo stati o siamo o vorremmo essere. Ogni incontro, ogni scelta, ogni caso può apparire oscuro perché le sue conseguenze ci sono ignote. Ma la vita, così come la P4C, ci insegna ad abitare con coraggio questo spazio, perché è il luogo della consapevolezza e della responsabilità.

Sara, laureata in Scienze della Formazione Primaria

Un giro del mondo…. a piedi|

“Mi chiamo Nico, vicentino annata ‘93, ed otto mesi fa sono partito per realizzare il mio sogno: fare il giro del mondo a piedi attraverso quattro continenti, in un viaggio di quattro anni lungo 35 mila chilometri.

Dopo essere partito da Vicenza il 9 Agosto del 2020, ho camminato attraversato Pianura Padana, Appennino Tosco-Emiliano e costa ligure fino a giungere al confine francese. Da Ventimiglia sono passato in costa azzurra, proseguendo il viaggio lungo la riserva della Camargue ed il Canal du Midi, un canale fluviale navigabile che collega mar Mediterraneo ed oceano Atlantico. A seguire, Lourdes ed i Pirenei, una delle tappe più dure, a 1600 metri in mezzo ad una bufera di neve. Nonostante il freddo ed il vento, sono arrivato in Spagna, percorrendo il Cammino di Santiago fino a Leon, città che mi ha ospitato durante l’Erasmus del terzo anno di studi presso UniVR. L’ultimo tratto europeo è stata la Via de la Plata, altro cammino della rete di Santiago, che da Leon mi ha portato a Palos de la Frontera, città dalla quale mi sono imbarcato per le Canarie alla ricerca di un passaggio in barca per le Americhe.

Dopo un mese di ricerche, sono riuscito a trovare un passaggio a bordo di un catamarano di 12 metri, il Tata, assieme al capitano australiano e a un ragazzo polacco. La traversata atlantica si è rivelata molto più lunga del previsto a causa di una fascia di bonaccia insolita per la stagione degli Alisei. Solitamente, infatti, la navigazione si conclude in tre settimane; l’equipaggio del Tata, invece, è approdato a St. Lucía (Caraibi) dopo 33 giorni in mezzo all’Oceano, più di un mese senza alcun contatto con il resto del mondo. Siamo rimasti nei pressi dell’isola per due settimane, prima di salpare nuovamente verso nord e spostarci ad Antigua. Qui, tuttavia, l’equipaggio si è sciolto e ho deciso di proseguire da solo alla volta di Panama, dove ho coronato un altro piccolo ma significativo pezzo del mio cammino: collegare gli Oceani Atlantico e Pacifico camminando per tutto l’istmo di Panama. In questo modo, è come se il cammino interrotto in Spagna fosse ripartito, senza interruzioni, dall’altro lato del mondo.

La prossima tappa riparte da Quito, capitale dell’Ecuador, e mi impegnerà per tutto il 2021: per arrivare a Santiago del Cile ci vorranno infatti circa dieci mesi perché la distanza da percorrere è di più di 6500km.

Dal Cile mi imbarcherò nuovamente, stavolta per l’Australia, che attraverserò da sud a nord tagliando a metà gli spazi sconfinati di terra rossa – l’Outback – che riempiono l’enorme stato australe. Sarà poi la volta dell’Asia, dalla Malaysia alla Thailandia giungendo a Bangkok e da lì in Birmania ed India. Mi dirigerò in Bangladesh per poi tornare nel subcontinente indiano, a New Delhi, e successivamente in Pakistan proseguendo lungo la Karakorum Highway, strada che attraversa l’omonima catena montuosa e passa in Cina a 4.700 metri, il punto più alto dell’intera spedizione.  Dopo un mese di cammino in Cina sarà la volta del Kirghizistan, dove seguirò la Via della Seta attraverso Samarcanda, Bukhara fino al Turkmenistan, ed Iran. Dall’antica Persia raggiungerò le coste del Mar Caspio attraversando l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia fino a Costantinopoli, dove ritornerò in Europa passando dalla Grecia e poi ancora a piedi, attraverso i Balcani per tornare a Malo, casa.

CAMMINARE AI TEMPI DEL COVID

Ho attraversato tre stati europei che attualmente versano in difficile situazione. Scegliendo di partire ad agosto, tuttavia, le prime settimane sono state più semplici da affrontare. In particolar modo, Italia e Francia non avevano ancora imposto lockdown, quindi non è stato difficile attraversarle. L’uso della mascherina si imponeva all’arrivo nei centri abitati più grossi, ma adottando queste misure di sicurezza il viaggio è proseguito tranquillamente. Non sono mancati gli incontri, né l’ospitalità da parte di persone conosciute lungo il cammino. La situazione è peggiorata con l’arrivo in Spagna, ad ottobre, ed i primi lockdown locali. Lungo il Cammino di Santiago diverse strutture di ricezione erano chiuse e gli spazi comuni come le cucine non potevano essere utilizzati. Anche così, tuttavia, sono riuscito a proseguire, alternando le notti negli ostelli rimasti aperti a quelle in tenda e condividendo con i pellegrini lungo il percorso il tratto di cammino comune. Ad inizio novembre, con il peggiorare della situazione, le tappe sono diventate più lunghe, con l’obiettivo di avvicinarsi al porto di Palos per lasciare il continente prima di un’eventuale lockdown totale in Spagna. A Las Palmas la situazione era migliore e quando nel continente sono ritornati i lockdown totali, in occasione delle festività natalizie, mi trovavo ormai a bordo del Tata, in mezzo all’Oceano, a sperimentare un isolamento del tutto diverso. Le regole incontrate ai Caraibi cambiavano di stato in stato: c’è chi chiedeva il test all’ingresso, chi predisponeva una quarantena. Per ora, comunque, il viaggio è potuto proseguire senza grossi intoppi e guardo speranzoso al 2021 come l’anno in cui la situazione potrebbe cominciare a tornare alla normalità.

IL VIAGGIO

Il viaggio durerà quattro anni, in un percorso di 35.000 km che chiamo “Il viaggio da casa a casa”, ispirandomi liberamente al periodo del Grand Tour quando giovani ragazzi viaggiavano lungo l’Europa per accrescere le loro conoscenze e tornare in patria per condividerle. Il progetto si chiama PIEROAD, ovvero “Pie” dal piede del dialetto veneto e “Road” la strada internazionale che percorro.

Se volete camminare con me attorno al mondo, seguite @pieroad____ su Instagram!”

Nicolò, laureato in Economia aziendale
Instagram: @pieroad____

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