Premio Andrea Vaona: un riconoscimento inatteso

“Quando, in una torrida mattinata siciliana di metà luglio, una e-mail proveniente dall’Università di Verona mi informava del conferimento del Premio Tesi di Dottorato in memoria di Andrea Vaona, ammetto di non aver pienamente afferrato, sul momento, cosa fosse successo. Avendo trasmesso la domanda di partecipazione svariati mesi addietro, su input di uno dei miei supervisor e in pieno spirito decoubertiano, ed essendo pienamente preso dai miei tanti impegni quotidiani, neppure ricordavo di essere “in lizza” per l’attribuzione di un premio. Va da sé che, una volta riannodate debitamente le fila della storia, sorpresa e soddisfazione sono emerse quali sensazioni prevalenti. Il pensiero che il mio lavoro, valutato da un collegio di docenti e ricercatori di rilievo, fosse stato ritenuto degno di un riconoscimento così ragguardevole, mi ha reso, una volta tanto, soddisfatto di me stesso – sentimento a cui non sono particolarmente avvezzo.

Il resto è cronaca più recente. Durante la mia due-giorni in terra Scaligera ho avuto modo, da un lato, di contemplarne alcune bellezze mozzafiato, in un pomeriggio di fine settembre semplicemente magnifico; dall’altro, il mattino seguente, di restare ammirato dalla sontuosità dell’edificio ospitante il Dipartimento di Scienze Economiche – all’interno del quale sono stato calorosamente accolto sia dal personale tecnico-amministrativo che dal suo Direttore e Vicedirettore.

Confesso che, nelle prime fasi della cerimonia di premiazione, malgrado fossi seduto in prima fila, ogni qualvolta veniva pronunciato il mio nome, la mia impressione era che si stesse parlando di qualcun altro – tanto era ancora radicato in me lo stupore per quanto accaduto. Senonché, nel momento in cui sono stato chiamato in causa per presentare agli astanti i risultati della mia ricerca, forse sospinto da quella stessa passione che aveva sempre animato Andrea Vaona, e vividamente rievocata dai familiari presenti, ho finalmente realizzato e tutto è proseguito per il meglio.

Di questa speciale vicenda, oltre agli innumerevoli attestati di stima ricevuti, porterò sempre con me le parole toccanti e lo sguardo della moglie di Andrea Vaona. Nei suoi occhi ho potuto cogliere un messaggio che – spero – fungerà da bussola per il mio futuro, non solo in ambito accademico: la memoria non si guadagna per ciò che si è materialmente realizzato; al contrario, come testimoniato dai tanti parenti e amici intervenuti all’evento, il merito del ricordo va ricercato nello spirito che guida il nostro agire e nella capacità di illuminare, lasciando anche solo un riflesso, col nostro entusiasmo, chi ci sta accanto”.

Antonio Francesco, assegnista di ricerca dell’Università di Palermo

Instagram: @afgravina

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione

“Sono Anna Polinari e sono una studentessa dell’Università di Verona, ma nella mia vita non c’è solo lo studio.

Pratico atletica leggera da 13 anni, all’inizio era solo un gioco, ma dopo i primi risultati a livello nazionale questo sport è diventato parte integrante della mia quotidianità.

Il mio sogno nel cassetto è sempre stato quello di partecipare ad un’olimpiade, ma ero consapevole di quanto duro lavoro e sacrificio si nasconde dietro competizioni di così alto livello e non sapevo se ne sarei mai stata realmente in grado.

Crescendo però, la ragazzina tenace e determinata che era in me ha conquistato i primi podi ai campionati nazionali e varie convocazioni in maglia azzurra.

Nel 2021 – un anno pieno di soddisfazioni, tra il titolo italiano nei 400 m promesse, un buon piazzamento ai Campionati Italiani assoluti e un buon tempo cronometrico – quella convocazione ai giochi olimpici non sembrava più una cosa astratta.

Ero ad allenamento e stavo per cominciare uno dei miei soliti lavori di corsa quando il mio allenatore Fabio Lotti cominciò ad urlare “Anna sei stata convocata!”: la convocazione ufficiale per la staffetta 4x400m era arrivata e poter condividere la gioia del momento con i miei compagni di allenamento e il mio coach è stato magico.

A Tokyo è stato bellissimo, si respirava un’aria di unione e competizione mai vista.

Anche se non ho potuto correre la staffetta, in quanto riserva, il mio cuore e la mia testa erano in pista con le mie compagne. E le emozioni non sono mancate. La squadra italiana ha fatto cose eccezionali e, in particolare, l’atletica ha conquistato ben cinque ori. Questi risultati mi danno la consapevolezza che tutto è possibile e io ho ancora tanto da dimostrare… e non vedo l’ora di farlo”.

Anna, studentessa di Scienze delle attività motorie e sportive
Instagram: @annapolinari

Ho voluto osare e sono partita per un Dottorato a Oulu, in Finlandia

“Mi chiamo Chiara, ho 26 anni e il 12 marzo mi sono laureata in Molecular and Medical Biotechnology. Ottenere la laurea magistrale rappresenta un grande traguardo, ma come tutte le mete, una volta raggiunte, porta con sé un profondo senso di incertezza per il futuro. Decidere che strada intraprendere è difficile, specialmente in questo periodo storico governato da una pandemia brutale e capricciosa.

Nonostante ciò, ho sentito la necessità di osare, farmi beffa della situazione e iniziare il dottorato in un altro Paese. Grazie all’Università di Verona avevo già avuto un’esperienza all’estero, trascorrendo un semestre di scambio in Giappone, nella bellissima Kyoto e studiando al Kyoto Institute of Technology. È stata questa la scintilla che mi ha spinto a cercare un dottorato all’estero, che mi ha dato la forza. Attenzione, non dico con questo che un’esperienza all’estero vi renderà più sicuri di voi e che poi viaggiare e trasferirsi sia tutto rose e fiori. Al contrario, è un percorso pieno di insidie e richiede capacità di adattamento e sacrifici. Nonostante ciò, studiare presso l’Università di Verona mi ha fornito un’ottima formazione e base da cui partire, specialmente perché l’intero corso di Molecular and Medical Biotechnology è tenuto in inglese. La tesi magistrale che ho svolto presso il laboratorio di Biomacromolecular Chemistry è stata essenziale per ottenere la mia attuale posizione tra 90 candidati e per questo sono estremamente grata.  

Ora lavoro presso il gruppo di Protein and Structural Biology dell’Università di Oulu, città della Finlandia settentrionale, a ridosso del circolo polare artico. Oulu è una città tecnologica, dove la ricerca procede a passi veloci, ma allo stesso tempo è un’oasi immersa nella natura. La gente è rilassata e passa il tempo libero nei parchi, in spiaggia o andando in bicicletta. La mia ricerca mi sta dando tante soddisfazioni e sono contenta di aver avuto il coraggio di arrivare fino a qui. Non per niente si dice che la fortuna aiuta gli audaci!”

Chiara, laureata in Molecular and Medical Biotechnology
Instagram: @chii.ra

Il mio Erasmus in Finlandia con il Covid: una vittoria indelebile

“Allora, cosa ti porti a casa da questa esperienza?”. Era questa la domanda che, durante l’ultima settimana del mio Erasmus, circolava incessantemente negli appartamenti, nei corridoi dei palazzi e negli spazi aperti di Kortepohja, il famoso quartiere che ospitava la maggior parte dei ragazzi che avevano scelto la città finlandese di Jyväskylä come meta del loro viaggio-studio. La questione non trovava facile risposta: le consapevolezze e le emozioni che sollevava erano parecchie e quasi inesprimibili a parole. Eppure, io non avevo dubbi circa l’insegnamento più prezioso che quei cinque mesi in Finlandia mi avevano trasmesso e che sarebbe rimasto con me per sempre: se si ha la forza di guardare in maniera diversa alle cadute che inevitabilmente si presentano nel corso della vita, non solo esse possono essere superate, ma possono anche diventare occasioni di luminose risalite.

La mia avventura non iniziò nel migliore dei modi: dopo tre settimane dall’arrivo nell’affascinante Paese nordico e dieci giorni di quarantena, in una fase oscillante tra ambientamento e solitudine, contrassi il Coronavirus. L’evento rappresentò un problema non da poco: la quasi totalità degli studenti accettati si era ammalata e nessuno sapeva, a fronte di un inatteso focolaio di contagi scoppiato in città, quali sarebbero state le conseguenze di tale imprevisto; inoltre, l’infinito buio invernale, la mancanza di dimestichezza con i luoghi e con lo stile di vita, il non avere ancora attorno persone fidate su cui contare e da cui poter ricevere aiuto, fomentavano il senso di disorientamento e preoccupazione. Sentivo dentro di me il peso di una profonda sconfitta: evidentemente, come molti giudicavano prima della mia partenza, avevo sbagliato a lasciare casa in un momento storico così delicato come quello dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

A fronte dell’angoscia che pervadeva le mie giornate in isolamento, pensai di rientrare in Italia non appena fossi guarita: sembrava questa la soluzione migliore, perché l’incerta atmosfera non consentiva di dare per scontata l’esistenza di un seguito positivo. Interrompere la faccenda sul nascere, sfuggendo in questo modo anche alle eventuali ulteriori sfide che si sarebbero prospettate

dopo la prima, rappresentava la via più comoda da imboccare; ma valeva davvero la pena lasciarsi atterrare dal primo ostacolo, per quanto arduo, e buttar via lo scenario di un periodo di vita e studio all’estero che tanto avevo desiderato? Conveniva rinunciare alla grande opportunità che l’Università di Verona mi aveva regalato, permettendomi di assaporare un pizzico di normalità e libertà negateci dalla pandemia? Capii che questa non sarebbe stata la mia scelta: volevo restare e affrontare la difficoltà, per ripartire poi con maggiore convinzione e sfruttare al massimo quell’esperienza. Ecco che la cupa e critica situazione sopraggiunta si rivelò essere una possibilità di autentica rinascita, una fertile occasione per il fiorire di potenzialità sopite in tempi di ordinarietà: solo grazie alle turbolenze in cui ero incappata, infatti, realizzai quanto fossi fortunata a poter svolgere il programma Erasmus nonostante tutto, e fui veramente pronta ad aprirmi e ad accogliere con entusiasmo ciò che mi attendeva. In effetti, una moltitudine di successi iniziarono successivamente a balenare per me: uscendo dalla mia zona di comfort e immergendomi completamente in un ambiente e in una cultura così diversi dai miei, potetti osservare fenomeni incredibili, come l’aurora boreale o il sole di mezzanotte, scoprire luoghi incantati, come gli innevati e silenziosi paesaggi della Lapponia, e provare attività elettrizzanti, come le immersioni post-sauna nel lago ghiacciato; strinsi intense amicizie e, misurandomi con diverse ed interessanti mentalità, imparai molto nel dialogo costante con l’altro; ebbi modo, per quanto riguarda l’aspetto universitario, di confrontarmi con materie e metodologie didattiche diverse, ricevendo freschi ed importanti stimoli che hanno contribuito ad ampliare la mia formazione.

Partire per l’Erasmus e rimanerci è stata quindi la decisione vincente. Devo ammettere, però, che questa non fu frutto soltanto dei miei pensieri: ad infondermi coraggio furono i miei cari, il Referente del Corso di Studi, la Referente alla Mobilità Internazionale di area filosofica e diversi docenti, i quali, insieme al personale dell’Ufficio per la Mobilità Internazionale, si prodigarono per supportarmi e tutelarmi, riflettendo assieme a me e rassicurando la mia famiglia. Desidero ringraziare sinceramente i miei professori, non solo per non avermi mai fatta sentire sola in questa sfortunata circostanza, ma anche per avermi motivava ad intraprendere un percorso di mobilità: anche con tutti gli inconvenienti del caso (anzi, soprattutto con questi), rifarei innumerevoli volte questa esperienza, perché, facendomi oltrepassare pregiudizi e paure, mi ha permesso di incontrare nuove e ricche realtà, di conoscere più a fondo me stessa e di crescere sotto parecchi punti di vista. Dirò qualcosa di scontato, ma in cui credo fermamente: l’Erasmus ti cambia la vita!”

Lucia, studentessa di Scienze Filosofiche
Instagram: @squillantelucia

La filosofia per i bambini: aspetti essenziali per il ben-essere di ciascuno

“Mi chiamo Sara, ho 36 anni e a dicembre scorso mi sono laureata in Scienze della Formazione Primaria con una tesi intitolata “Philosophy for Children: una pratica per la Comunità di Ricerca nella scuola primaria”. Dire in poche parole cosa sia la Philosophy for Children non è cosa facile. La P4C è stata definita una “forma di vita”, unica e indicibile, un luogo da abitare quindi più che un oggetto da descrivere. Per questo ritengo più facile raccontare cosa sia stata questa esperienza formativa.

Innanzitutto, la Philosophy for Children rappresenta per me un approccio per curare aspetti che considero essenziali nella vita e nel ben-essere di ciascuno: l’empatia, la padronanza delle emozioni, la loro espressione, la capacità di credere in sé, di gestire le relazioni, l’amore e l’affetto. Per chi come me ha potuto incontrare e conoscere il mondo dell’infanzia sa come questi valori influenzino enormemente la crescita e gli apprendimenti. Le strade della mia vita mi hanno condotta in diversi modi alla vicinanza con bambini e adolescenti: durante l’anno di servizio civile, all’interno di associazioni di volontariato e nel mio lavoro come educatrice in una comunità familiare. Da queste esperienze ho imparato ad apprezzare il valore di un contesto di cura come motore di cambiamento individuale; la centralità della condivisione e del dialogo, come gioco a somma positiva; l’importanza di offrire ai bambini competenze autonome, critiche, riflessive. Negli anni, ho maturato la consapevolezza di voler dedicarmi all’insegnamento, riconoscendo l’importanza della figura del maestro nella vita del bambino, la sua vicinanza prolungata nelle giornate e negli anni cruciali per lo sviluppo. Fu proprio nel percorso di studi di Scienze della Formazione Primaria che conobbi il metodo della Philosophy for Children, dell’americano Matthew Lipman. Da subito mi sono scoperta affine al pensiero di questo autore, che spese la sua vita a impostare un innovativo curricolo scolastico. Ripensando con commozione ai momenti di convivialità trascorsi con i giovani, mi chiedevo se non avessi, in piccola parte, praticato anch’io la P4C, sognando come, forse, la passione dell’autore, raccolto nello studio della sua casa di Montclair, fosse stata simile alla mia. Così, iniziai le mie ricerche, partecipando ad alcune sessioni di P4C con adulti, nel contesto universitario padovano, e soprattutto con bambini, in una scuola primaria di Verona. Quello che osservavo era un potente strumento che garantisce pari opportunità all’interno del gruppo nell’esposizione delle proprie idee, una tecnica per sviluppare competenze espressive e relazionali, che favorisce i momenti di riflessione e le situazioni comunicative autentiche. Il dialogo maieutico ispirato a Socrate costituisce l’attività centrale di una sessione di P4C, che può diventare quindi il luogo dove i bambini interiorizzano l’etica del dialogo, imparando a pensare con la propria testa, a ragionare criticamente e creativamente. Il bambino che cresce e si forma in un contesto di democraticità non farà che riproporre lo stesso stile relazionale e comunicativo nella propria vita.

Nello scegliere l’argomento di tesi decisi di seguire il mio cuore, piuttosto che ragionare su quale professore fosse più disponibile, o di fare considerazioni pragmatiche sulle tempistiche di laurea. Ciò che contava era indagare un argomento di interesse, fare qualcosa che mi coinvolgesse e appassionasse. Una scelta che risultò condizionante nel determinare il tipo di insegnante che avrei voluto essere. Fu infatti durante il tirocinio di tesi sulla P4C che incontrai e lavorai assieme alla tutor Cosetta, una maestra motivata e scatenata che è per me modello di riferimento umano oltre che professionale. La sua carriera mi ha fatto capire come la P4C rappresenti un programma di formazione in primis per gli insegnanti coinvolti, un’occasione per ribaltare le modalità di conduzione frontale delle lezioni, la tanto obsoleta “trasmissività”. La scuola del terzo millennio necessita di riforme che infrangano in profondità vecchi e impliciti paradigmi. La P4C rappresenta un modo di apprendere circolare, democratico, collaborativo e co-costruito. Rappresenta uno “stile di vita” improntato alla ricerca e alla riflessività, che si fanno habitus del docente all’interno delle quotidiane azioni didattiche.

Ancora, il ruolo della P4C è stato estremamente valevole all’interno della Didattica a Distanza. Il setting digitale ha portato la P4C dentro alle case, nelle cucine e nelle camerette degli alunni. In un momento così tragico come quello della pandemia, che i bambini spesso hanno vissuto silenziosamente, la P4C ha rappresentato per loro uno spazio efficace di ascolto attivo e di auto-espressione, uno strumento per mantenere connessi gli alunni e le loro maestre, in uno spazio di dialogo e di cura, di rispetto e di comunione.

Frequentare il corso di SFP è stata una sfida immane: 6 anni di studi, tirocini sfiancanti, confronti, riflessioni sulla pratica di questo lavoro e su di me come persona. Il tutto continuando a lavorare nel sociale. La soddisfazione maggiore può ben dirsi quella di essere giunta al termine di un percorso tanto impegnativo. Una strada imboccata con leggerezza e quasi per sfizio, che ha condizionato in modo prepotente il mio futuro, così come, a volte, gli eventi più banali nelle nostre vite sono quelli che le influenzano maggiormente. Grazie a questa tesi di laurea ora ho vinto un concorso nazionale indetto dal CRIF, il Centro di Ricerca sull’indagine filosofica, che mi dà accesso ad una formazione estiva presso una “scuola di pratica filosofica”. Non posso non chiedermi quali strade questa esperienza ancora mi aprirà, come potrò spendere queste competenze. Nella vita facciamo tante esperienze, ciascuna colorata di sfumature calde o fredde, tenui o accese, dai toni cupi o vivaci.

Ognuna di esse ci aiuta a rivelarci ciò che siamo stati o siamo o vorremmo essere. Ogni incontro, ogni scelta, ogni caso può apparire oscuro perché le sue conseguenze ci sono ignote. Ma la vita, così come la P4C, ci insegna ad abitare con coraggio questo spazio, perché è il luogo della consapevolezza e della responsabilità.

Sara, laureata in Scienze della Formazione Primaria

Un giro del mondo…. a piedi|

“Mi chiamo Nico, vicentino annata ‘93, ed otto mesi fa sono partito per realizzare il mio sogno: fare il giro del mondo a piedi attraverso quattro continenti, in un viaggio di quattro anni lungo 35 mila chilometri.

Dopo essere partito da Vicenza il 9 Agosto del 2020, ho camminato attraversato Pianura Padana, Appennino Tosco-Emiliano e costa ligure fino a giungere al confine francese. Da Ventimiglia sono passato in costa azzurra, proseguendo il viaggio lungo la riserva della Camargue ed il Canal du Midi, un canale fluviale navigabile che collega mar Mediterraneo ed oceano Atlantico. A seguire, Lourdes ed i Pirenei, una delle tappe più dure, a 1600 metri in mezzo ad una bufera di neve. Nonostante il freddo ed il vento, sono arrivato in Spagna, percorrendo il Cammino di Santiago fino a Leon, città che mi ha ospitato durante l’Erasmus del terzo anno di studi presso UniVR. L’ultimo tratto europeo è stata la Via de la Plata, altro cammino della rete di Santiago, che da Leon mi ha portato a Palos de la Frontera, città dalla quale mi sono imbarcato per le Canarie alla ricerca di un passaggio in barca per le Americhe.

Dopo un mese di ricerche, sono riuscito a trovare un passaggio a bordo di un catamarano di 12 metri, il Tata, assieme al capitano australiano e a un ragazzo polacco. La traversata atlantica si è rivelata molto più lunga del previsto a causa di una fascia di bonaccia insolita per la stagione degli Alisei. Solitamente, infatti, la navigazione si conclude in tre settimane; l’equipaggio del Tata, invece, è approdato a St. Lucía (Caraibi) dopo 33 giorni in mezzo all’Oceano, più di un mese senza alcun contatto con il resto del mondo. Siamo rimasti nei pressi dell’isola per due settimane, prima di salpare nuovamente verso nord e spostarci ad Antigua. Qui, tuttavia, l’equipaggio si è sciolto e ho deciso di proseguire da solo alla volta di Panama, dove ho coronato un altro piccolo ma significativo pezzo del mio cammino: collegare gli Oceani Atlantico e Pacifico camminando per tutto l’istmo di Panama. In questo modo, è come se il cammino interrotto in Spagna fosse ripartito, senza interruzioni, dall’altro lato del mondo.

La prossima tappa riparte da Quito, capitale dell’Ecuador, e mi impegnerà per tutto il 2021: per arrivare a Santiago del Cile ci vorranno infatti circa dieci mesi perché la distanza da percorrere è di più di 6500km.

Dal Cile mi imbarcherò nuovamente, stavolta per l’Australia, che attraverserò da sud a nord tagliando a metà gli spazi sconfinati di terra rossa – l’Outback – che riempiono l’enorme stato australe. Sarà poi la volta dell’Asia, dalla Malaysia alla Thailandia giungendo a Bangkok e da lì in Birmania ed India. Mi dirigerò in Bangladesh per poi tornare nel subcontinente indiano, a New Delhi, e successivamente in Pakistan proseguendo lungo la Karakorum Highway, strada che attraversa l’omonima catena montuosa e passa in Cina a 4.700 metri, il punto più alto dell’intera spedizione.  Dopo un mese di cammino in Cina sarà la volta del Kirghizistan, dove seguirò la Via della Seta attraverso Samarcanda, Bukhara fino al Turkmenistan, ed Iran. Dall’antica Persia raggiungerò le coste del Mar Caspio attraversando l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia fino a Costantinopoli, dove ritornerò in Europa passando dalla Grecia e poi ancora a piedi, attraverso i Balcani per tornare a Malo, casa.

CAMMINARE AI TEMPI DEL COVID

Ho attraversato tre stati europei che attualmente versano in difficile situazione. Scegliendo di partire ad agosto, tuttavia, le prime settimane sono state più semplici da affrontare. In particolar modo, Italia e Francia non avevano ancora imposto lockdown, quindi non è stato difficile attraversarle. L’uso della mascherina si imponeva all’arrivo nei centri abitati più grossi, ma adottando queste misure di sicurezza il viaggio è proseguito tranquillamente. Non sono mancati gli incontri, né l’ospitalità da parte di persone conosciute lungo il cammino. La situazione è peggiorata con l’arrivo in Spagna, ad ottobre, ed i primi lockdown locali. Lungo il Cammino di Santiago diverse strutture di ricezione erano chiuse e gli spazi comuni come le cucine non potevano essere utilizzati. Anche così, tuttavia, sono riuscito a proseguire, alternando le notti negli ostelli rimasti aperti a quelle in tenda e condividendo con i pellegrini lungo il percorso il tratto di cammino comune. Ad inizio novembre, con il peggiorare della situazione, le tappe sono diventate più lunghe, con l’obiettivo di avvicinarsi al porto di Palos per lasciare il continente prima di un’eventuale lockdown totale in Spagna. A Las Palmas la situazione era migliore e quando nel continente sono ritornati i lockdown totali, in occasione delle festività natalizie, mi trovavo ormai a bordo del Tata, in mezzo all’Oceano, a sperimentare un isolamento del tutto diverso. Le regole incontrate ai Caraibi cambiavano di stato in stato: c’è chi chiedeva il test all’ingresso, chi predisponeva una quarantena. Per ora, comunque, il viaggio è potuto proseguire senza grossi intoppi e guardo speranzoso al 2021 come l’anno in cui la situazione potrebbe cominciare a tornare alla normalità.

IL VIAGGIO

Il viaggio durerà quattro anni, in un percorso di 35.000 km che chiamo “Il viaggio da casa a casa”, ispirandomi liberamente al periodo del Grand Tour quando giovani ragazzi viaggiavano lungo l’Europa per accrescere le loro conoscenze e tornare in patria per condividerle. Il progetto si chiama PIEROAD, ovvero “Pie” dal piede del dialetto veneto e “Road” la strada internazionale che percorro.

Se volete camminare con me attorno al mondo, seguite @pieroad____ su Instagram!”

Nicolò, laureato in Economia aziendale
Instagram: @pieroad____

La ricerca è vita ed è un lavoro di squadra

I latini ci hanno insegnato a declinare la scienza come conoscenza, ossia lo studio dettagliato e sistematico di ciò che esiste, che vive, dentro di noi e di ciò che ci circonda. Ma cosa vuol dire fare scienza? La conoscenza non può essere un atto meramente teorico, ma per essere viva ha bisogno di una realizzazione pratica, che si dispiega nelle relazioni interpersonali, nella condivisione, nella partecipazione, in ciò che definiamo comunemente esperienza umana. È dal connubio di questi due aspetti che prende forma e si alimenta lo spirito del nostro gruppo: la scienza è amica e deve avvicinare, e il nostro compito è quello di renderla vicina a tutti.

Spesso si è inclini a sottovalutare l’aspetto umano, ma al di là dei singoli esperimenti, delle tecniche di laboratorio innovative, dietro a quegli strumenti alle volte troppo sofisticati ci sono persone, vite e storie meravigliose da raccontare. E’ questo che rende speciale il nostro lavoro di gruppo; la nostra forza risiede proprio nella passione che mettiamo nell’ impegno quotidiano, senza mai perdere di vista il fine, il punto di caduta della nostra attività di ricerca, il bene dei pazienti. Ed è anche per questo motivo che il raggiungimento di obiettivi importanti come le diverse pubblicazioni sulle autorevoli riviste scientifiche sono da considerarsi il frutto di un lavoro di squadra e la piena espressione delle singole e peculiari competenze, in un lavoro armonioso e corale. 

La ricerca è vita e, come la vita, è un cammino non privo di ostacoli, di cadute, di sofferenze, ma fare ricerca nel nostro gruppo vuol dire anche incontrare braccia sempre aperte ad accogliere e mani sempre tese a rialzare chi è caduto. I risultati non si ottengono solo alla fine di un esperimento in laboratorio, ma durante e spesso prima di iniziarlo, perché la ricerca è un’attività continua e ininterrotta di singoli istanti, di piccole cose, dell’essenziale, ed è “dando” valore alle piccole cose che si possono fare cose grandi.

Gruppo di Ricerca di Ilaria Dando, Università di Verona
Instagram: @ilariadandolab

Il mio stage durante la pandemia: un’esperienza totale nonostante la distanza

“Nonostante qualche incertezza dettata dalla pandemia, il mio tirocinio di sei mesi all’Ufficio stampa dell’università è iniziato comunque lo scorso settembre svolgendosi totalmente a distanza. Il mio entusiasmo, però, non si è smorzato e, superata qualche paura ed ansia iniziale, sono riuscita a dare me stessa, imparando tantissimo. In questi sei mesi ho avuto l’opportunità di mettere in pratica la maggior parte delle nozioni apprese nella triennale di Scienze della Comunicazione, che ho svolto sempre a Verona, e dunque di addentrarmi nel campo del giornalismo vero e proprio.

Mi sono messa in gioco come mai avevo fatto nella mia vita.

È stata per me un’esperienza totale e completa nonostante la distanza e il virus incombente perché mi ha fatto veramente comprendere che il mondo dell’informazione è esattamente il campo in cui vorrei lavorare in futuro: scovare le notizie, gerarchizzarle, capirne l’importanza, controllare le fonti, seguire gli eventi, scrivere i pezzi su di essi e molto altro.

Ho condiviso questo percorso con le mie colleghe stagiste con cui mi sono confrontata, dandoci supporto reciproco riguardo la stesura dei pezzi, tra problemi di connessione, riunioni Zoom, gruppi WhatsApp e scambi di e-mail: ci siamo adattate, vivendo lo stage formativo e sfruttandolo a pieno. Non mi sono abbattuta quando ciò che scrivevo o facevo, soprattutto nella fase iniziale, non andava bene, leggendola nell’ottica di una risorsa per un miglioramento.

La mia esperienza si è conclusa, ma ricorderò e non smetterò di allenarmi e di osservare ciò che leggo e scrivo con occhio critico, come mi è stato insegnato, mettendomi sempre anche nei panni del lettore.”

Paola, studentessa di Editoria e Giornalismo
Instagram: @paolina.96

La mia esperienza con l’OCD – Obsessive Compulsive Disorder

“Mi chiamo Irene, ho 22 anni e soffro di DOC – Disturbo Ossessivo Compulsivo (OCD). Dopo due anni di terapia cognitivo-comportamentale con una specialista del centro “Dritto al Punto” di Verona e grazie al supporto farmacologico del mio psichiatra, posso dire di aver superato questo brutto mostriciattolo. Ovviamente il mio cervello resta lo stesso, le connessioni non sono magicamente scomparse, ma grazie alla cassetta degli attrezzi che ho costruito durante questo percorso mi sento pronta a scoprire il mondo e vivere la mia vita secondo le mie regole.

Sono fiera di me stessa, del lavoro svolto e del supporto che ho ricevuto dalla mia famiglia e dai miei amici. Sono grata di avere avuto la possibilità di affrontare e superare questa crisi e di avere l’opportunità di viaggiare nel bellissimo pianeta in cui viviamo.

Vorrei condividere questo messaggio con tutte le persone che, come me, devono convivere e imparare a gestire questo disturbo: sappiate che non siete sole.

Spero che la mia testimonianza possa raggiungere molte persone, per questo ho realizzato un video in cui racconto la mia esperienza personale che spero possa essere condiviso il più possibile.

Buona vita a tutte e tutti!

P.S. Nel video non menziono tipologia di farmaci né dosaggi o altro. Non voglio in nessun modo classificare il disturbo perché sono perfettamente consapevole della vastità della casistica, ma voglio semplicemente raccontare la mia esperienza personale. Non voglio in nessun modo dare una “ricetta segreta” per superare il disturbo, perché oltretutto la ricetta non esiste! Ognuno di noi è unico, non paragonabile agli altri. Ogni storia è preziosa e merita di essere condivisa.”

Irene, studentessa di Logopedia
Instagram: @__irene.22

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