Beatrice Manca, giornalista di moda e tendenze

Beatrice Manca, trentenne laureata in Editoria e Giornalismo, è giornalista professionista e docente. Scrive di moda, tendenze e questioni di genere.

Beatrice, descriviti in poche parole.

Sono Beatrice Manca, ho trent’anni, nel 2016 mi sono laureata in Editoria e Giornalismo all’Università di Verona, dopo una triennale conseguita a Pisa. Sono giornalista professionista e scrivo di moda, tendenze e questioni di genere. Ho un corso all’Accademia Costume e Moda in cui parlo di narrazioni social e questioni ambientali agli studenti.

Ci racconti com’è nata la tua passione per il giornalismo?

Scrivere è sempre stato il mio sogno. A casa mia i giornali ci sono sempre stati, ricordo fin da piccola, con piacere, mio nonno che ogni giorno leggeva il quotidiano. Ma è leggendo assiduamente i supplementi di cultura e i femminili che è nato il mio amore per il giornalismo e per le riviste.

Ci racconti com’è stato scegliere il percorso universitario?

Con un papà avvocato e una mamma medico, sembrava che il mio percorso universitario fosse in un qualche modo segnato. Io però volevo fare un lavoro creativo: per questo, devo dire, la scelta dell’università è stata piuttosto sofferta. Dovevo scegliere tra un percorso che mi avrebbe garantito un lavoro con delle sicurezze, e il lavoro che avrei davvero voluto fare. Allora ho scelto di iscrivermi a Lettere. Oggi sono giornalista professionista e scrivo per varie testate in tema di costume e società, un ambito dove si intrecciano arte, cultura e cinema. Ma non solo: scrivo anche di diritti, questioni di genere, ambiente. 

E l’ingresso nel mondo del lavoro?

Sono stata molto fortunata, perché dopo la laurea ho iniziato a lavorare fin da subito. Ora sono freelance, ma prima ho fatto diverse esperienze da dipendente. Per quasi tre anni ho lavorato per Fanpage.it, poi ho deciso di fare il salto verso la libera professione per conciliare insegnamento e giornalismo. Grazie alla vincita di una borsa di studio, infatti, ho potuto frequentare per un semestre l’Accademia Costume & Moda di Roma, che qualche anno dopo mi ha chiamata per dei laboratori con gli studenti. Ora collaboro, tra gli altri, con MANINTOWN, ilfattoquotidiano.it e il Foglio della Moda.

Qual è il sacrificio maggiore che si deve mettere in conto se si vuole intraprendere una carriera nel giornalismo?

Direi che nella fase iniziale è inevitabile affrontare il precariato diffuso, che ti fa sembrare che non inizierai mai a lavorare sul serio. Poi però non appena prendi il via, il lavoro rischia di fagocitarti: il mondo gira velocemente e tu devi girare con lui. Un periodo iniziale di precariato e di basse retribuzioni purtroppo spesso va messo in conto. Si fa giornalismo perché si ha la vocazione, ma non deve diventare volontariato puro, per la causa. A un certo punto è necessario mettere dei paletti. Il lavoro si paga, altrimenti è un hobby. Fondamentale poi è investire molto in se stessi fin dall’inizio e, porsi degli obiettivi o dei limiti: quanto siamo disposti a lavorare anche a poco ma per fare esperienza?


Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia agenda è davvero imprevedibile e spesso sono fuori casa, computer in spalla, per seguire eventi, conferenze, festival, o per le interviste. Va detto che la vita sociale è una grande fetta della vita del giornalista: specialmente nel mio ambito, andare a feste, cene ed eventi è fondamentale per crearsi una rete di rapporti professionali. Quando posso, lavoro nello spazio co-working della redazione, oppure lavoro da casa. In generale, dalle 7 alle 8 di mattina mi prendo sempre un’ora per capire cosa succede nel mondo e per informarmi – la cosiddetta rassegna stampa – mentre la sera invece mi concedo un’ora per leggere, anche (e soprattutto) per piacere. 

Come pensi sia cambiato il tuo lavoro negli ultimi anni?

Fino a quindici anni fare il giornalista significava trovare le notizie e scriverle bene. Ora le competenze da avere si sono moltiplicate: devi sapere fare foto e video, saper impaginare un testo per l’online, capire come usare i siti e i social sia come fonti, sia come mezzo di comunicazione per raccontare l’attualità. Oggi i social network sono ciò che erano una volta le piazze: se una volta ci si chiedeva “Cosa si dice al bar?”, oggi ci chiediamo “Di cosa si parla sui social?”

In che modo l’Università ti ha aiutato a costruire le skills necessarie a lavorare nel giornalismo?

Una delle esperienze più significative è quella che ho fatto a Fuori Aula Network, la radio dell’Università di Verona. È lì che ho lavorato al programma PopCorn, un format dedicato al cinema che conducevo insieme a Caterina Moser. Ed è lì che mi sono messa alla prova con l’ideazione di programmi, l’editing di audio, la registrazione… ho imparato un sacco di cose! E poi per me la radio universitaria era un piccolo mondo in cui chiunque avesse una buona idea poteva proporla e svilupparla.

Ti occupi soprattutto di spettacoli, costume e società. C’è un tema che ti sta particolarmente a cuore?


Forse la questione che mi sta più a cuore oggi è quella ambientale, che io seguo dal lato della moda sostenibile e che è anche uno dei focus dei miei corsi in Accademia. Sul lato ‘pop’, invece,
posso dire di essermi specializzata nella storia della famiglia reale inglese. Su Elisabetta II ho letto praticamente tutto, e ho seguito nel giro di pochi mesi sia il Giubileo del suo regno che i suoi funerali: situazioni nelle quali senti di avere avuto un posto in prima fila mentre la storia accadeva. Una mia collega mi ha perfino regalato come portafortuna la sua statuetta Funko Pop! 

Consigli da dare ai laureati?

Buttatevi: se volete davvero fare qualcosa, provateci. Per chi vuole fare il giornalista penso sia fondamentale avere flessibilità, capacità di essere autonomi e di avere sempre uno sguardo curioso sulle cose. Ricordatevi sempre che, in qualità di giornalisti, dobbiamo osservare da vicino la realtà di cui scriviamo, mantenendo però il giusto distacco.


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Marco Fasoli, Alumno Univr nel mondo del vino (e dell’olio)

Marco Fasoli è un Alumno Univr laureato in Economia e Commercio che ha fatto della sua passione per il mondo dell’enologia e dell’olio d’oliva la sua professione. Senior Manager nella Direzione Vendite e Marketing presso rinomate aziende del settore Food & Beverage e Hospitality, sia in Italia che all’estero, Fasoli si descrive come un consulente che ha contribuito ad avviare, sviluppare e consolidare diversi business, oltre che a lanciare nuovi brand e prodotti, promuovendo l’innovazione e l’internazionalizzazione delle imprese.

Le attività di Fasoli spaziano dalla docenza alla consulenza nel mondo del vino – è Sommelier certificato scelto da importanti realtà del settore – a quello dell’olio, ambito per il quale ricopre la qualifica di Maestro di Frantoio e nel 2020 ha ricevuto la nomina di Ambasciatore dell’Olio EVO italiano nel mondo. La conoscenza approfondita del settore enogastronomico lungo tutta la filiera produttiva e distributiva rappresenta uno dei punti chiave del suo curriculum vitae.

Marco Fasoli, descriviti in poche parole.

Il mio nome è Marco Fasoli, sono di Verona e lavoro da tanti anni nel mondo del vino e dell’enogastronomia. Sono consulente commerciale per diverse aziende del settore, ho la docenza alla scuola internazionale di cucina ICIF per quanto riguarda l’olio extra-vergine di oliva e l’abbinamento cibo-vino. Ho lavorato in aziende in Trentino-Alto Adige, Toscana e Piemonte. Ho avuto la fortuna di seguire l’evoluzione del vino italiano nel mondo. 

Cosa ti affascina maggiormente di questi ambiti?

Di questi settori ho sempre ammirato molto l’innovazione anche in termini di sviluppo internazionale, perché ritengo che la capacità di innovarsi sia il nostro grande plus. Specialmente all’estero, dove la ristorazione italiana rappresenta uno dei fattori chiave per far conoscere il nostro Bel Paese. Credo poi che fare squadra sia fondamentale: sono le sinergie a portarci a essere vincenti sui mercati, assieme allo studio approfondito del contesto enogastronomico di ogni Paese.

Nel tuo CV c’è una laurea in Economia e Commercio presso Univr. Cosa ti ha portato dagli studi universitari in economia al mondo del lavoro e, in particolare, al settore enogastronomico?

Fin da subito – ancora da studente di economia – ho avuto la grande fortuna di confrontarmi con la realtà produttiva. Ho iniziato nel mondo del tessile e delle calzature, con le prime esperienze all’estero e, in particolare, in Germania. Un percorso che mi ha fatto capire quanto l’università sia importante per essere formati, anche dal punto di vista umano, ma poi è l’esperienza sul campo nel mondo delle imprese a farti crescere professionalmente. Un conto è la didattica e lo studio sui libri, un altro è invece trovarsi ad avere un confronto con gente molto più grande di me che “mangiava” marketing e piani commerciali dalla mattina alla sera. Tutto questo mi ha affascinato molto e mi ha permesso di crescere. Poi, con un corso da sommelier, è nata la passione per il vino e i contatti con le prime cantine in Trentino.

Qual è il primo consiglio che ti senti di dare a chi per la prima volta si affaccia sul mondo del lavoro?

Prima di tutto, direi che è fondamentale creare relazioni. Se questo è vero in tutti gli ambiti della vita, lo è in special modo, a mio parere, nel mondo del lavoro. 

Il secondo consiglio, invece?

Il secondo consiglio che mi sento di dare ai ragazzi è quello di innamorarsi dei progetti, di appassionarsi e portare avanti un progetto fino in fondo. E poi c’è la curiosità. Consiglio ai giovani di essere curiosi, di studiare, leggere, fare molte analisi nel loro settore di interesse. E poi cercare costantemente di migliorarsi e chiedere consigli a chi ne sa di più. Ecco, a questo aggiungo anche l’umiltà: una caratteristica per me fondamentale.

Ci racconti la tua giornata tipo?

La mia agenda è molto fitta, cerco di tenere tutto organizzato in base alle diverse aree in cui devo intervenire. La mia giornata è focalizzata sulla curiosità di cosa sta succedendo in ogni progetto che seguo in veste di consulente. Viaggio molto e le giornate sono varie, ma una cosa nella mia giornata non deve mancare mai, ed è un momento di studio e aggiornamento sulle ultime novità del settore. Poi penso sia sempre importante dedicarsi del tempo per sé. 

Cosa ti piace maggiormente del tuo lavoro?

Lavorare con un team giovane mi piace molto. Credo che oggi i giovani avvertano il bisogno di sentirsi valorizzati, in un mondo dove oramai la velocità è tutto e rischia di portare all’omologazione. Poi adoro fare team-building: se alla base del nostro concetto di management c’è la convinzione che ognuno di noi sia diverso e vada quindi valorizzato per quello che è e per i suoi talenti, riuscire ad integrare persone diverse in un team di lavoro efficace è una grande sfida e una enorme soddisfazione. Infine, del mio lavoro mi piace il fatto di avere la possibilità di parlare con chi oggi magari ha ottanta o novant’anni e ha lavorato nella vigna fino a ieri. Sedersi a bere un bicchiere di vino con queste persone e ascoltarli è come leggere un grande libro.


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L’esperienza Erasmus in Armenia di Greta e Nicole

Greta Marostica e Nicole Marenghi, due studentesse dell’Università di Verona, raccontano in una video intervista la loro esperienza di Erasmus+ studio svolta in Armenia, un’ex repubblica sovietica situata nella regione montuosa del Caucaso, a cavallo tra Asia ed Europa.

Guarda l’intervista video sul canale YouTube dell’Ateneo di Verona:

Tempo di bilanci: un anno di trascrizioni

Mi sento un’amanuense digitale: per un anno on&off, grazie all’assegno di ricerca dell’Università di Verona, alla generosità di Nica Borgese, all’ospitalità di Renato Camurri e all’accoglienza di Arnaldo Soldani, facendo la spola con Firenze, dove Elisabeth Mann alla morte del marito nel 1952 ha creato il Fondo Borgese, ho trascritto i Diari americani di Borgese 1935-1952.

I dieci quaderni in questione sono custoditi presso la Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze, luogo che frequento da numerosi anni e dove ho avuto modo di conoscere e apprezzare il personale assennato – una per tutte Maria Enrica Vadalà – che si alterna nella Sala Rari in tutte le stagioni. L’enorme mole di studiosi che frequenta le Biblioteche fiorentine conosce bene il caldo rovente dei mesi estivi e il vento gelido dei mesi invernali. Ma la nostra è una missione e sembra che più le condizioni sono avverse, più i ritmi sono monastici, più ci prendiamo eroicamente gusto.

La trascrizione è un lavoro certosino, che a dirlo lascia a bocca aperta tutti: «dopo tanti anni di ricerca e insegnamento ti metti a trascrivere?». Ebbene sì, la trascrizione è un approdo in un porto molto ben collegato con destinazioni potenzialmente infinite. Grazie alla trascrizione del manoscritto autografo – già danneggiato dal tempo e dall’alluvione – si salva dal deperimento e dall’oblio un materiale culturale di inestimabile valore, si permette grazie alla stampa e eventualmente all’Open Access la diffusione ad un pubblico di lettori molto più ampio degli sparuti utenti della Sala Rari. Ovvio che la trascrizione non è fine se stessa, comporta una ricerca aperta perché Borgese ha avuto una vita a dir poco dinamica, piena di risurrezioni e svolte, con contatti illustri e una produzione sterminata.

Al termine dell’anno e quasi al termine delle trascrizioni – grazie anche al normalista Federico Sessolo – mi si pone un dilemma, che poi è quello di sempre da quando lavoro su Borgese: adottare i ferri del mestiere dei filologi o quelli degli storici? La prossima tappa consisterà infatti nel tentare di stabilire un quadro, degli argini che mi consentano di non compiere troppi passi falsi nel territorio degli uni e degli altri… Sarò in grado di mixare i due approcci e soddisfare l’orizzonte di attesa di un pubblico colto, curioso, multidisciplinare e internazionale? Credo inoltre fermamente che Borgese parli a tutti, mi auguro pertanto che l’edizione risulti, non dico divulgativa, ma accessibile ai più. Che dire, Verona è stata una cornice discreta, elegante e accogliente nei confronti di un autore con il quale non c’erano legami; ho infatti l’impressione che Borgese continui a viaggiare e farsi apprezzare ovunque arrivi (portandosi dietro me).

Nel 2022 Ilaria De Seta ha avviato un progetto di ricerca sui Diari inediti di Giuseppe Antonio Borgese con un assegno di ricerca del Center for European Studies del Dipartimento di Culture e Civiltà, Università di Verona.

Prima parte del racconto (pubblicato nel mese di giugno 2022 su Peopleof.univr)

Ilaria De Seta, assegnista di Storia contemporanea, Dipartimento di Culture e Civiltà

Il fascino delle biotecnologie? La comprensione dell’ignoto

Nicolò Vivori, laureando in “Molecular and Medical Biotechnology”all’Università di Verona – Dipartimento di Biotecnologie, grazie a una borsa di studio della Fondazione Dompé sta svolgendo un tirocinio alla Harvard Medical School di Boston.

Intervista a Nicolò pubblicata giovedì 23 febbraio 2023 sul sito web di Fondazione Dompé:

Quando ti sei innamorato della scienza?

Sono sempre stato attratto dalla scienza, soprattutto dalla chimica e dalla biologia. Ai tempi del liceo, due esperienze mi hanno avvicinato ancora di più a questo mondo: uno stage alla Fondazione Bruno Kessler, dove mi sono trovato ad analizzare film di silicio, e la partecipazione al contest “Europass Spaces mobility”. Si trattava di una gara tra liceali che premiava gli autori dei dieci migliori progetti con un viaggio di formazione scientifica. Essendo stato selezionato tra i vincitori, ho trascorso una settimana intera a Budapest, una a Dortmund e una a Monaco, ed è stato bellissimo!

Cosa ti ha spinto a scegliere la laurea magistrale in “Molecular and Medical Biotechnology” all’Università degli Studi di Verona? 

Innanzitutto, il grado di personalizzazione offerto da questa magistrale: ogni studente ha la possibilità di costruirsi un percorso di studi su misura, selezionando i corsi che rispecchiano maggiormente i propri interessi. Io, ad esempio, ho scelto di frequentare Human Genome Sequencing perché non vedevo l’ora di scoprire come il sequenziamento avesse rivoluzionato le biotecnologie e la medicina. Poi, perché fornisce delle buone basi di medicina, e credo questo tassello formativo sia essenziale se ci si vuole occupare seriamente di biotecnologie. Se infatti l’obiettivo della medicina è curare i pazienti, quello delle biotecnologie è trovare gli strumenti per poterlo fare.

Cosa significano per te le biotecnologie?

Sono lo scopo della mia vita. Ciò che mi affascina di più di questo mondo è la possibilità di esplorare e comprendere l'”ignoto”, rappresentato, ad esempio, dalle malattie rare. Spero un giorno di poter contribuire allo sviluppo di terapie per curarle. 

Descriviti in una parola 
Curioso: è il mio punto di forza, sin dalla tenera età. Senza curiosità non si va da nessuna parte, soprattutto nel campo della ricerca. 

Rivelaci qualcosa che non è sul tuo curriculum

Sono un grande sportivo: ho giocato a basket per più di dieci anni, poi mi sono cimentato nell’atletica e nella pallavolo, e infine le ho lasciate per dedicarmi di più alla scienza. Inoltre, ho un bellissimo gatto bengala, si chiama Fire.

Quali tre obiettivi vorresti portare a casa quest’anno?

Pubblicare un articolo su una rivista importante, come “Nature”, “Science” o “Cell”; laurearmi con il massimo dei voti, e crearmi un network di “amici ricercatori” alla Harvard-MIT-Broad Institute, dove attualmente sto svolgendo uno stage.

Qual è il lavoro dei tuoi sogni?

Fondare una startup biotecnologica. Lo so, punto in alto!

Cosa ha significato per te aver vinto questa borsa di studio?

Questa borsa mi ha permesso di lanciarmi in un’avventura che spero possa essere un trampolino di lancio per la mia carriera, ovvero partire per Boston e iniziare uno stage al laboratorio di Liron Bar-Peled presso la Harvard Medical School. 

Qual è il miglior consiglio che ti sia mai stato dato?

Esci il più possibile dalla tua comfort zone: non si può che imparare moltissimo dalle sfide!

Qual è il tuo motto?

«Faber est sua quisque Fortunae», che significa «Ognuno si crea la propria fortuna». Non credo nel destino: se ci si da degli obiettivi e si lavora sodo per raggiungerli, nulla è impossibile nella vita.

Nicolò Vivori, laureando Univr in Molecular and Medical Biotechnology

Instagram: @nicovivori

Il giro del mondo (a piedi) di Nico

VERSO LA FINE DEL MONDO

Alla periferia di Quito, capitale dell’Ecuador, delle lettere cubitali colorate di arcobaleno informano che siamo alla “Mitad del Mundo”, ossia a cavallo dell’Equatore. Dalla parte opposta dell’America Latina, a sud, un’insegna meno pomposa ma altrettanto suggestiva è il tradizionale punto di partenza o arrivo dei ciclisti che percorrono la Ruta 40, la strada che attraversa la Patagonia Argentina. Su quest’ultimo cartello, nella città di Ushuaia, viaggiatori e turisti leggono “Benvenuti alla Fine del Mondo”. Dodicimila km di avventure separano i due punti: un continente, quattro paesi, la Cordigliera delle Ande, il deserto più arido del mondo e decine di meraviglie naturali, storie e persone. C’è chi percorre questa distanza in bici, chi in moto, altri ancora in van o camper. Due anni fa, io ho deciso di coprirla a piedi.

Mi chiamo Nico e il mio sogno è fare il giro del mondo a piedi. Sono partito da casa, in Italia, spingendo un passeggino di nome Ezio che trasporta tutto quello di cui ho bisogno, dal cibo alla tenda. Dopo aver attraversato l’Europa Occidentale camminando e l’Oceano Atlantico in barca, sono arrivato in America Latina e ho deciso di percorrerla da nord a sud in direzione Fine del Mondo. Questo è un breve racconto sul viaggio che ho vissuto.

PRIMI PASSI IN SUDAMERICA

La sosta a Panama fu breve ma significativa. Avevo interrotto il cammino in Spagna, sulle rive dell’Oceano Atlantico, e volevo riprenderlo da dove mi ero fermato per portarlo dall’altro lato dello stretto, sulle sponde dell’Oceano Pacifico. Humberto era la prima persona che mi ospitava in America Latina, ci eravamo conosciuti su Couchsurfing qualche giorno prima che arrivassi e anche se era un discreto camminatore lo vidi esitare quando gli proposi di accompagnarmi. Novanta chilometri con il caldo equatoriale sono un’idea poco appetibile per chiunque. Decisi di lasciare Ezio a casa di Humberto in modo da viaggiare più leggero, avrei coperto la distanza in due giorni pertanto a parte la tenda non avevo bisogno di gran equipaggiamento. Solo un oggetto era fuori luogo: un grosso machete di ferro prestatomi da una guardia forestale. Il motivo? Provate a dormire con 35 gradi e umidità relativa al 90%! La sensazione di freschezza del metallo sul corpo era un toccasana e riuscii ad addormentarmi solo sdraiandomi a petto nudo sopra il machete. A meno di 48 ore di distanza avevo immerso le mani in entrambi gli Oceani. Il giro del mondo a piedi era approdato sull’altro lato dell’America Latina. Scelsi di proseguire da Quito, in modo da cominciare la discesa verso sud e la Fine del Mondo dalla sua iconica Mitad.

Una delle storie che ti capitano se viaggi a piedi è che dall’aeroporto alla città più vicina puoi tardare anche due giorni. Atterrai alle 15.00 ora locale, con 40 km a separarmi da Quito; impensabile farcela prima di notte. Mi diressi verso Tumbaco, uno dei sobborghi della capitale, dove Couchsurfing mi aveva connesso a David. Ci misi qualche ora per arrivare, ma quando arrivai e cominciai a bussare alla porta, nessuno rispose. Le luci erano spente. Non so perché ma decisi di abbassare la maniglia della porta e… Ma dai! Era aperta! La piccola stanza dava sul tavolo della cucina, gli occhi furono subito catturati dal biancore rettangolare di un foglio di carta poggiato sopra al legno. Un messaggio? “Ciao Nico, scusa ma sono dovuto uscire per lavoro e tornerò dopodomani. Ti ho scritto ma penso non abbia ricevuto il messaggio perchè ancora non avrai la sim locale. Fai come fossi a casa tua, spero di vederti, scrivimi quando hai connessione che ci becchiamo a Quito”. Alzai gli occhi dal foglietto, allibito. Benvenuto in Ecuador!

Riuscimmo a incontrarci qualche giorno dopo, in occasione di una serata a base di pizza e vino. David era amico di Alejandra, la mia host di Quito, così avevamo organizzato un rendez-vous nella sua casa di periferia. La prima settimana era volata e i nuovi amici erano stati degli ottimi anfitrioni. Avevamo passato interi pomeriggi a parlare di storia, geografia, leggende e ricorrenze popolari e ora avevo un’infarinatura generale sull’Ecuador che mi avvicinava alle persone e ai loro modi di fare. Partii tra abbracci e auguri di buon cammino e cominciai la discesa delle Ande in stato di euforia. Dai 2800 metri di Quito arrivai in poche settimane alla costa, nei pressi della città di Manta e punto di partenza della Ruta del Spondylus, una conchiglia sacra alle popolazioni native che presta il nome alla strada del litorale sud. La percorsi tutta fino a Guayaquil, seconda città del paese, e nel mentre battezzai lo stomaco con il primo fuorigioco: il ceviche. Piatto tipico dell’Ecuador, il ceviche è un mix di pesce crudo con cipolla, qualche fetta di peperone rosso, coriandolo fresco e abbastanza succo di limone da farne uscire un sughetto. Non mi ero ancora azzardato a provarlo, ma dopo due mesi di cucina locale pensavo di essere a posto. Mi sbagliavo. Passai due giorni a letto con i crampi allo stomaco e ci misi un’altra settimana a recuperare del tutto. 

“BUENA ONDA, PANA!”

Arrivai a Guayaquil qualche tempo dopo, diretto a casa di Juan Pablo. Ci eravamo conosciuti lavorando in Australia e ora Juan Pablo – JP per gli amici – mi stava ospitando a casa sua. Suo padre mi aveva passato una lista di cibi tipici da provare, con la promessa che se ne avessi mangiati almeno la metà avrei potuto dichiararmi Ecuadoriano di adozione! Ero messo bene e senza saperlo mi ero avvicinato al quorum. Il Bicho di Chontacuro invece mi mancava, “Che cos’è?” chiesi a Pablo. Lui scoppiò in una fragorosa risata e quando lo guardai interrogativo rispose tra le lacrime: “Un enorme lombrico tipico dell’Amazzonia! Ricchissimo di proteine, dovresti provarlo!” 

Da Guayaquil feci una piacevole deviazione verso le Galapagos, l’arcipelago dei sogni in cui la natura coesiste con l’uomo da pari a pari. Era maggio 2021, i vaccini per il covid cominciavano a uscire e le Galapagos erano state scelte dal governo per iniziare le vaccinazioni, volevano renderle covid-free in modo da riportare il turismo sulle isole. Correva voce che vaccinassero pure gli stranieri, dunque volevo provare la giocata. Avevo un contatto locale, un’altra Alejandra, che mi avrebbe ospitato. E così presi il volo per San Cristobal e non appena cominciarono a distribuire le dosi mi misi in coda. Il primo giorno andò buca perché la precedenza era per i residenti e non erano rimaste fiale, ma al secondo ebbi fortuna. Ero riuscito a vaccinarmi – e prima ancora dei miei coetanei Italia! 

CAMMINO IN PERU

Tornai sulla terraferma per riprendere il cammino. Da Guayaquil mi diressi verso il confine con il Perù, attraversando le infinite piantagioni di banane nella regione di El Oro. Se non ricordo male, l’Ecuador è il primo esportatore al mondo di banane, persino più della Cina! Immaginate di camminare per giorni e giorni circondati da questi alberi… Ovunque mi girassi, il panorama rimaneva uguale. Ero ormai al confine, pensavo di passare ad Aguas Verdes, ma un messaggio ricevuto pochi giorni prima mi aveva fatto prendere un’altra strada. Gian è Couchsurfing ambassador del Perù e mi aveva contattato per offrirmi di stare da lui, a Piura. La città distava un centinaio di km dal confine e quando gli chiesi cosa pensasse della frontiera ad Aguas Verdes mi consigliò di attraversare più a est, nei pressi di Lalamor – meno traffico, più tranquillo. Seguii il suggerimento e in pochi giorni ci trovammo faccia a faccia nella sua casa di Piura, la Città dell’eterna estate. Ricorderò sempre il commento che feci appena arrivato: “Gian, ma dov’è il tetto??” “Ah, qui non piove mai quindi non c’è”. Così come Alejandra era stata la mia guida per l’Ecuador appena ero arrivato, Gian fu felice di spiegarmi come funzionavano le cose in Perù. Vedemmo assieme il percorso – tutto lungo la costa per facilitare il cammino. Ma anche stavolta Gian mi fece cambiare idea. Tirò fuori qualche foto della Cordigliera Bianca, una sezione delle Ande settentrionali peruviane dai panorami spettacolari, e mi fece vedere a grandi linee i percorsi di trekking che avrei potuto fare una volta raggiunte. Era deciso, Ezio e io saremmo andati sulle Ande! 

L’ascesa dalla costa ai 2400 metri di Caraz, primo villaggio del canyon affacciato sulle Ande Bianche, fu lenta e graduale. Grazie al consiglio di Dani, ragazzo conosciuto con gli hangouts e che aveva percorso il Perù in lungo e in largo in sella alla sua bici, ero riuscito a evitare il passo a 4000 metri che si interponeva tra la Panamericana e la valle di Caraz. La strada che si snodava lungo il Canyon del Pato era più lunga, ma aveva il vantaggio di essere decisamente più sicura e scenografica. Considerando che viaggiavo esclusivamente a piedi, spingendo un passeggino che tra provviste ed equipaggiamento arrivava a pesare 50 kg, la scelta di una strada senza passi di montagna elevati era la strategia migliore per le mie gambe. I trekking della Cordigliera Bianca mi trattennero quasi un mese: fu lì che mi innamorai definitivamente del Perù. Settembre volgeva al termine quando mi saziai di lagune incantate e ghiacciai maestosi e cominciai a tornare alla costa, direzione Lima. 

Lima si trova a metà lunghezza del Perù: i 1500 km a nord erano andati, ora toccava a quelli verso sud, i più desertici e meno abitati. Avrei dovuto portare più acqua e fare ricorso al free camping nelle lunghe distanze tra un centro abitato e l’altro. Mi abituai alla routine di montare il campo a camminata conclusa e smontarlo la mattina presto, prima dell’alba. Percorrevo una media di 40km al giorno e a dire la verità ero sereno, mi piaceva. Il clima del deserto peruviano è caldo e secco, non piove e c’è poco vento: sono le condizioni ideali per chi vuole camminare. Ogni tanto arrivavo in città, facevo rifornimento, visitavo qualcosa e poi ripartivo. 

IL PAESE PIU LUNGO DEL MONDO

Il gps segnava 4000 km in America Latina (7000km da quando il giro del mondo a piedi era iniziato) quando varcai il confine con il Cile e mi addentrai nel deserto più arido del mondo: Atacama. Alcune regioni non registrano pioggia da settant’anni e l’aria è talmente secca che anche in assenza di vento ti si screpolano le labbra. Nonostante ciò, per me era il paradiso: a parte il vento che si levava il pomeriggio, in direzione contraria, le condizioni per camminare erano perfette. Tenevo una media di 40km al giorno, calcolando provviste per una settimana da un centro abitato al successivo: cibo in abbondanza e 25 litri di acqua sufficienti a bere, cucinare e lavare me e i vestiti. Lavare?! Eh si, in qualche modo volevo togliermi la polvere di dosso, quindi passavo una spugna umida sul corpo per tirare via il grosso della giornata. Riuscivo anche a lavare i calzini usando una tanica di acqua da cinque litri come lavatrice: con due litri potevo lavare due paia di calzini, quindi due giorni di marcia.

Lasciai alle spalle il Norte Grande e il cuore del deserto di Atacama in due mesi. Avrei voluto arrivare a Santiago e proseguire per l’Australia, ma non riuscii a ottenere il visto in tempo, pertanto fui costretto a fermarmi. Andare in Australia fuori stagione avrebbe significato attraversare l’Outback con l’estate e cinquanta gradi, era fuori discussione. La seconda opzione era allungare il cammino di 5000 km e otto mesi e andare ancora più a sud… Ushuaia e la fine del mondo! 

Rimasi in Cile e oltrepassai Santiago addentrandomi nel Valle Central, dove vive la maggior parte della popolazione. La zona sud del paese è famosa per essere tremendamente piovosa, però è anche decisamente popolata. Il nuovo equilibrio portò la tenda a riposare dentro Ezio e io a trovare ristoro presso decine di persone incontrate sui social media. Rimasi colpito dalla varietà e dalla creatività dei personaggi con cui facevo amicizia: c’era chi, per vivere, faceva dell’artigianato di cemento, da sottobicchieri a portasaponi a sostegni per lampade; chi, per hobby, costruiva enormi maschere di cartapesta a forma di animali fantastici chiamati Alebrijes; un ragazzo, Ivan, era appena rientrato a casa dopo aver lasciato la barca ormeggiata ai Caraibi, in attesa che la stagione degli uragani finisse per poter tornare a veleggiare tra le isole dalla sabbia bianca. 

Proseguii lungo la Carretera Austral, la strada delle meraviglie in cui ghiacciai e lagune spettacolari si affacciano da ogni dove. Giunto al termine, a Villa O’Higgins, trovai il confine per l’Argentina chiuso. Se volevo rimanere fedele all’impegno di farla tutta a piedi, avrei dovuto prendere una deviazione da 500 km per arrivare dall’altra parte. Così feci.

LA FINE DEL MONDO

Dovetti tornare indietro per cinquanta chilometri (vi assicuro che a piedi è una distanza considerevole) e poi uscire dall’infernale Passo Mayer, un groviglio di guadi di fiume, paludi, sentieri che si perdevano e una passerella sospesa sopra un corso d’acqua impetuoso. Al termine, centinaia di chilometri di Pampa desolata, un vento incessante che urlava nelle orecchie giorno e notte impedendo di dormire e la desolazione assoluta. Potevo contare soltanto su di me e il mio fedele compagno, nessuna possibilità di rifornimento, tutto il cibo era stato stivato dentro al passeggino. Ci misi due settimane per raggiungere la meta, Chaltèn, capitale nazionale del trekking argentino. Proseguii il cammino verso sud dopo essermi debitamente rifocillato e riposato, toccando Calafate e il Perito Moreno, uno tra i ghiacciai più famosi e scenografici al mondo. Volevo tornare in Cile perché ormai lo avevo percorso tutto, dall’estremo nord di Arica fino a Bahia Bahamonde, dove la strada si interrompeva. Potevo essere il primo a percorrere tutto il Cile in lunghezza, camminando.

La notte di Natale accampai al confine, lato argentino, i gendarmi lasciarono che mettessi la tenda dietro la guardiola… E mi diedero pure qualcosa da mangiare! Il giorno dopo ero in Cile e venivo accolto da una bufera con venti a 80km/h, folate tanto potenti da riuscire a spostare Ezio nonostante i suoi 50 kg.

Arrivai a Punta Arenas pronto per l’ultimo atto: la Terra del Fuoco. Si tratta di un’isola ancora più a sud della Patagonia e ospita la città più australe del mondo, la mia meta e la fine del capitolo sudamericano del Giro del mondo a piedi: Ushuaia, la Fine del Mondo. Percorsi l’ultimo tratto di Cile, da Porvenir al Passo San Sebastian, concludendo l’epopea nel paese più lungo del mondo. Solo per attraversarlo mi ci era voluto un anno, tempo in cui avevo camminato per quasi 6000 chilometri da Arica a San Sebastian. Non so di altre persone che l’abbiano mai fatto: ero il primo a riuscirci. 

Ero nuovamente in Argentina e a 450km dal confine mi stava aspettando la Fine del Mondo. Vi giunsi il 24 gennaio 2023, dopo aver percorso 12.000km in quattro paesi: Ecuador, Perù, Cile e Argentina. Avevo attraversato tre deserti, ero salito sulle Ande e avevo consumato nove paia di scarpe da quando ero partito da Quito e la Mitad del Mundo, due anni prima. Potrei scrivere un libro su quello che è successo nel frattempo – e probabilmente lo farò – ma cosa lasciarvi in un racconto di poche righe? “Se credete nei vostri sogni li potete realizzare”, per quanto vero suona banale, troppo facile. Allora vi dico questo: rallentate. Andate con calma, non abbiate fretta di fare le cose per poi dire di averle fatte. Prendetevi del tempo, metteteci del vostro e date un significato alla fatica, in modo che quando arriverete al cartello che segna l’arrivo non abbraccerete solamente un pezzo di legno, ma voi stessi e il tempo che avete dedicato a realizzare il vostro sogno. Abbiate la curiosità di vedere la bellezza nella diversità e la pazienza di cogliere la diversità nella lentezza. Rallentate, perché andare piano è il modo migliore per diventare ciò che siete.

Nicolò, laureato in Economia aziendale – Università di Verona
Instagram: @pieroad____

LE TAPPE PRECEDENTI

Nei mesi scorsi sono stati pubblicati su People of Univr altri racconti del viaggio di Nico:

Realizzare il sogno di pubblicare per il Trinity College di Dublino

Come molte storie, è iniziato tutto con un sogno.

Flashback: luglio, 2019. Per festeggiare l’imminente laurea in Lettere Moderne, decido di fare un viaggio in Irlanda per visitare Dublino, per poi completare il mio pellegrinaggio verso i paesi anglosassoni andando a Londra in autunno. È precisamente il 29 Luglio a Dublino. Sotto un tipico acquazzone estivo, mi reco a visitare le consuete tappe turistiche della città, che comprendono pub variopinti, musei pieni di quadri e suppellettili dall’oriente, chiese che sembrano uscite da un romanzo gotico e giardini botanici che sfoggiano i bellissimi fiori violacei della Purple Loosestrife. Complice la tregua da una pioggia incessante (un ragazzo del posto mi racconterà ironicamente che in Irlanda si sa che è arrivata l’estate quando la pioggia è calda) decido finalmente di recarmi al Trinity College. L’impatto è decisivo. Prima che iniziassi a divorare i libri di Naoise Dolan e Sally Rooney in una settimana in attesa della conferma dalla mia relatrice, prima che esprimessi il mio sogno di pubblicare la mia tesi magistrale in lingua inglese, c’è stato il campus del Trinity College di Dublino, il cui nome ufficiale per esteso è College of the Holy and Undivided Trinity of Queen Elizabeth near Dublin, vibrante di vita culturale e di storia, di letteratura irlandese e anglosassone.

Flashforward: ottobre, 2022. Dopo aver frequentato un ciclo di Seminars in Literary Translation presso il Trinity College in preparazione della tesi magistrale, dopo essermi laureata con lode parlando delle vicende editoriali e delle traduzioni italiane dei Dubliners di James Joyce, dopo essere ritornata per il World Translation Day dedicato a Sally Rooney, il sogno sembrava destinato a rimanere solo un sogno. Sudate ricerche post-laurea durate tutta l’estate in cerca di una pubblicazione avevano dato promesse vaghe o non realizzate. Ma non riesco ad abbandonare, il sogno è troppo vivido. Così vivido che forse qualcuno dall’altra parte del mare lo percepisce. Arriva una mail, e proprio dal Trinity. È niente poco di meno che Anastasia Fedosova, Editor-in-Chief del Trinity Journal of Literary Translation (JoLT), che mi scrive di essere rimasta affascinata dalla mia ricerca e di volerla includere di comune accordo con gli altri editor nel first issue of the year. C’è solo un piccolo dettaglio: “The theme of this issue is dreams. Could be any link drawn between your essay and this editorial theme?”. In preda ad un’eccitazione dovuta alla risposta e all’incredibile coincidenza del destino rispondo che sì, ho un’intera sezione che tratta delle traduzioni di un sogno nella musica dei Dubliners. Il resto accade tutto molto in fretta. In un delirio febbrile scrivo, traduco, mi confronto con la mia editor in una confessione che ha anche un sapore onirico perché spesso dura fino a sera inoltrata, e infine aspetto. Finalmente, il 21 novembre 2022, The Trinity Journal of Literary Translation (JoLT), Volume 11, Issue I: Dreams, viene dato alla luce. Ne segue il Launch e la lettura dei vari contributors, artisti e dottorandi del Trinity, il 24 Novembre 2022, giorno del mio venticinquesimo compleanno, con citazione finale della mia ricerca nel Trinity News di qualche giorno dopo. Lo so, troppo vero per non essere un sogno.

Morale della storia? Per quanto possa sembrare un miracolo o semplicemente un cliché, posso testimoniare come il vecchio detto valga ancora: non smettere di sognare.

Sara Begali, laureata Univr in Tradizione e Interpretazione dei Testi Letterari

Instagram: @sara_begali

Prime proclamazioni di laurea del corso di Data Science Univr: i racconti di Marta e Jordy

Marta e Jordy sono tra i primi laureati del corso di Laurea Magistrale in Data Science dell’Università di Verona. Sul blog di People of Univr, raccontano la loro esperienza universitaria in Univr e i progetti futuri.

Marta: 

Perché Data Science a Verona?

Inizio nel rispondere alla domanda che più frequentemente mi è stata posta: perché hai scelto la magistrale in Data Science proprio a Verona? I fattori che maggiormente hanno influenzato la decisione sono stati due: 50% lezioni in presenza e possibilità di fare un’esperienza all’estero extra UE. Ad oggi posso aggiungere molte altre motivazioni, ma partiamo dall’origine…

La scelta, una scommessa.

I miei primi tre anni di università li ho passati a Milano laureandomi in Informatica per la comunicazione digitale, Università degli studi di Milano. È stata una esperienza bellissima, che mi ha fatto crescere molto dal punto di vista formativo e umano, avendo anche abitato in appartamento con altri studenti. Questo ha alzato l’asticella nella decisione della magistrale che è stata influenzata dal periodo storico del Covid-19. Mi sono laureata proprio in quell’anno, passando i sei mesi di tesi triennale forzatamente chiusa a casa. La fatica è stata tanta (penso che anche te possa condividere) soprattutto essendo abituata a studiare spesso in compagnia con i compagni. Le mie opzioni erano restare a Milano segregata in appartamento con lezioni 100% online oppure optare per Verona che offriva 50% di lezioni in presenza e 50% online. Per me frequentare i corsi è sempre stato molto importante perché stando attenta e prendendo appunti si è già a metà dello studio, e avendo io molte altre passioni, sono sempre riuscita a ritagliarmi il tempo necessario. La decisione non è stata semplice anche perché essendo il primo anno di corso magistrale di Data Science non potevo chiedere a vecchi studenti la loro esperienza. È stata una bella scommessa.

Pochi ma buoni

Il primo anno è stato molto particolare, tanto ha influenzato la situazione del Covid. Ho cercato sempre di frequentare le lezioni anche se in classe eravamo solo in 4-5. Ci sono pro e contro di essere in pochi, sicuramente si viene seguiti molto bene e c’è sempre spazio per domande o approfondimenti.Essendo un nuovo corso fin dall’inizio c’è stata molta collaborazione tra noi studenti e i professori, soprattutto con il coordinatore Prof. Dai Pra, che è stato molto attento ad ascoltare i nostri pareri sui corsi, i dubbi e i consigli.

American experience

Uno tra gli aspetti positivi e indimenticabili che ho passato in questi due anni è stata l’esperienza in Louisiana, più precisamente alla Southeastern Louisiana University, grazie al World Wide Study Program. Sì, ho passato 5 mesi in un college americano, dormito negli studentati del college, mangiando in mensa con cheerleaders e giocatori di football. C’è pure stato l’uragano 14 giorni dopo il mio arrivo, ma posso affermare che è stata una di quelle esperienze che ti formano tanto sia dal punto di vista scolastico che umano. Un diverso modo di insegnare, un diverso modo di apprendere, un diverso modo di studiare, una diversa cultura. Che dire ho conosciuto persone fantastiche da tutte le parti del mondo (ero l’unica Italiana)!

Tesi e futuro

Tornata in gennaio, molto carica, ho dato l’ultimo esame per poi prepararmi ad iniziare la tesi con la Prof. Bazzani, la quale mi ha fatto appassionare al digital marketing. Qui inizia il mio spostamento di rotta verso il marketing. Durante questi mesi di magistrale, a causa di imprevisti del progetto di tesi, ho iniziato a collaborare per Legend Kombucha dove tuttora lavoro, un ambiente che mi ha permesso di iniziare ad applicare tutto ciò che ho imparato in questi 5 anni di università. Ritornando alla tesi, anche se è stato un lungo periodo con alti e bassi, sono molto soddisfatta perché mi ha permesso di poter lavorare in un gruppo di ricerca e concludere un vero progetto per un’azienda (Masi Agricola) riuscendo a dare il mio contributo, che soddisfazione! Lavorare in questo ambito mi è piaciuto molto e proprio per questo ho deciso di candidarmi per un progetto di ricerca in università.

Conclusione

Sono stati due anni molto particolari: dalle lezioni online allo scoprire i volti dei compagni dopo mesi senza mascherine, dalle aule di Borgo Roma alle lezioni in America, dall’essere studente ad iniziare a lavorare… Sono veramente grata di tutte le esperienze che ho fatto! Devo ringraziare il coordinatore del corso Prof. Dai Pra, Roberta Padovani per avermi sempre aiutato con la parte burocratica soprattutto durante i mesi all’estero, Maddalena Pigozzi referente del programma World Wide Study, Dott.ssa Claudia Bazzani per avermi trasmesso la sua passione e aver creduto in me. Grazie a tutti i compagni di corso per aver scommesso con me su questo nuovo corso e in bocca al lupo anche a tutti gli studenti! 

Marta Bonioli, laureata in Data Science @martabonioli

Jordy:

Se mi avessero chiesto cos’è la Data Science all’inizio della mia laurea triennale in Matematica Applicata, non avrei saputo rispondere. Quando ho scoperto dell’esistenza di questo nuovissimo programma, la laurea magistrale in Data Science, mi sono subito informato a riguardo. Un programma innovativo che racchiudeva tutto ciò che desideravo approfondire: applicazioni dell’analisi di dati mediante strumenti informatici e statistici in vari campi, tra cui economia, business e sociologia. Nei tre anni a Matematica, sono stato catturato dei metodi e delle applicazioni mentre la teoria è diventata una solida base, un contorno fondamentale per il mio percorso. Il programma di Data Science mi fu presentato dal mio supervisore di tesi triennale, nonché coordinatore della nuova magistrale (prof. Paolo Dai Pra). In un misto tra fiducia nel professore, voglia di affacciarsi ad una nuova realtà ed entusiasmo riguardo i temi del corso di laurea, decisi di fare il grande passo e scegliere Data Science. Ciò voleva dire scegliere la strada meno battuta: lasciarsi dietro molti amici, professori e corsi per affacciarsi ad una nuova realtà. Col senno di poi, di nuovi amici ne ho trovati, e lo stesso vale per professori e corsi che hanno lasciato un segno indelebile nel mio percorso accademico.

Descriverei il programma in poche parole: innovativo, multiforme ed internazionale. 

Innovativo perché tocca una scienza che è in continua espansione ed è un tema caldo negli ultimi anni sia nel mondo lavorativo, sia in quello accademico.

Multiforme perché ho potuto scegliere fra vari percorsi (curriculum) nei quali soltanto tre esami erano obbligatori mentre gli altri andavano “pescati” dai diversi ambiti di approfondimento e applicazione fra cui informatica, economia e sociologia.

Internazionale perché favorisce gli scambi e mi ha permesso di aprirmi a nuovi orizzonti all’estero.

A coronare l’esperienza di questa magistrale, vi è infatti il secondo anno, che ho speso all’Università di Helsinki grazie al programma Erasmus. In Finlandia ho avuto modo di approfondire alcuni argomenti avanzati relativi alla Data Science tra cui Deep Learning e High Performance Computing ed ho concluso il mio percorso di tesi magistrale proprio con un professore dell’università di Helsinki. La nuova magistrale in Data Science mi ha lasciato molte soddisfazioni ed è stata senz’altro un’esperienza positiva.

Jordy Dal Corso, laureato in Data Science @elmarajon

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