Maura Loi, lo sport e la ricerca del “benessere verde”

Maura Loi, dalla Sardegna, ha individuato in Verona la meta ideale per proseguire il suo percorso di studi. Dopo la laurea magistrale conseguita in Scienze motorie nel nostro ateneo, ha ottenuto un master e ora sta portando avanti il suo progetto di dottorato nell’ambito delle aree verdi nei contesti urbani e della loro relazione con il benessere psicofisico, senza però abbandonare la sua passione di sempre: il nuoto.

Come hai scelto questo percorso?

La scelta di Scienze motorie deriva dalla tanta passione per lo sport, che ho fin da piccola. Non ho praticato discipline ad alti livelli, ma mi ha sempre caratterizzato la costanza, sia nello sport che negli studi. Prima di tutto il nuoto: l’ho sempre praticato con passione. Una volta conclusa la mia carriera sportiva e iniziati gli studi universitari, sono passata dall’altra parte, a insegnarlo. Per quanto riguarda invece l’università, la triennale l’ho fatta a Cagliari, poi mi interessava proseguire il percorso focalizzandomi più sulla prestazione sportiva che sull’ambito delle preventive adattate, per cui mi sono trovata a dover scegliere e valutare diverse sedi. Tutto questo in un periodo complicato – l’estate 2020, post-lockdown – in cui spostarsi da una regione all’altra (o da un’isola al continente nel mio caso) per vedere da vicino le università e provare i test d’ingresso non era esattamente facile. 

Alla fine, sono arrivata qui a Verona: tornando indietro rifarei questa scelta altre mille volte. Al di là del percorso universitario, questa è una città che offre molto e, per quanto molto turistica e con una grande storia, rimane una città a misura d’uomo e con grande varietà. Qui non mancano mai gli stimoli, c’è sempre qualcosa da fare e da scoprire con tante iniziative e anche l’università fa in modo che lo studente rimanga sempre in contatto con quello che gli succede attorno. Inoltre, mi trovo bene a livello di collegamenti, sia interni alla città che verso l’esterno: una bella differenza per me, abituata a dover prendere aerei o navi per ogni spostamento! 

Lo sport aiuta nella vita di tutti i giorni così come nello studio?

Certamente, lo sport mi ha aiutato ad avere costanza. Ti puoi impegnare e allenare quanto vuoi ma poi magari arrivi alla gara e, oltre a competere con te stesso, devi competere con gli altri e considerare che esistono anche i fallimenti e che questi hanno diverse proporzioni. Nel nuoto, al di là del tempo che peggiora o migliora, hai la competizione con chi ti sta a fianco, i tempi limite per entrare in determinate competizioni. Sicuramente sotto questo profilo lo sport mi ha sempre aiutata a non fermarmi davanti a ostacoli o fallimenti, come un esame non passato o un voto che non era quello che mi sarei aspettata. 

Secondo me lo sport migliora anche i rapporti interpersonali: se lo pratichi sei più propenso ad aprirti agli altri e conoscere più persone. Per quanto il nuoto sia considerato uno sport individuale, per me non è stato così. Poi anche dopo, all’università, mi sono sempre sentita più spigliata nel fare nuove conoscenze e soprattutto arrivata qui a Verona, più o meno alla magistrale eravamo tutti ex atleti o comunque ex sportivi. Per me le migliori amicizie sono nate grazie allo sport e tramite interessi comuni.

Ora fai il dottorato. Come sei arrivata al tuo ambito di ricerca?

Sono al primo anno di Dottorato in Neuroscienze, Biomedicina e Movimento, il gruppo di ricerca per il quale lavoro è quello di Fisiologia dell’esercizio. La mia laurea magistrale è Scienze motorie ma nel mio progetto di dottorato mi sto occupando di tutt’altro. Il mio progetto è finanziato dai fondi PNRR e la tematica è la relazione tra il verde urbano e il benessere psicofisico. Il tema si allontana da quello che ho studiato in questi anni. Dal punto di vista pratico, soprattutto della raccolta dati, ho accumulato tanta esperienza durante gli anni di studio ma mi sto avvicinando a un mondo completamente nuovo. Sicuramente ci sarà anche una parte che riguarda l’attività fisica nelle aree verdi delle città, ma sto iniziando un percorso totalmente nuovo, devo ancora mettere tutti i mattoncini per costruirlo. Sono arrivata a questo progetto in quanto la professoressa che mi ha seguito per la tesi magistrale mi ha parlato di questa opportunità e io ero interessata a proseguire i miei studi con il percorso di dottorato. Per quanto non fosse esattamente in linea con il mio profilo e i miei studi, non mi sono preclusa niente. In fondo il dottorato è un periodo in cui si è ancora studenti ed è quindi un’occasione in più per imparare. 

Credi che sia un valore aggiunto questo studio trasversale di ambiti leggermente diversi tra loro come le Scienze motorie e le aree verdi come elemento di benessere psicofisico?

Mi sto rendendo conto che, al di là del bagaglio di conoscenza che una persona deve avere, probabilmente durante il dottorato serve tanta versatilità. Devi affrontare tante sfide, dall’organizzazione al problem solving, tutte cose che penso di essermi costruita negli anni e che mi stanno permettendo di approcciarmi a questo progetto. 

Il dottorato permette anche di fare un periodo all’estero, per il mio percorso è obbligatorio. Non ho mai fatto l’Erasmus durante la triennale e la magistrale, ma solo il traineeship l’anno scorso, una di quelle esperienze che ti aprono gli occhi e la mente. Mi sono pentita di non averlo fatto prima. Ora, come da progetto, mi aspetta un periodo a Barcellona, presso un istituto che si occupa della valutazione di salute e ambiente: è un gruppo di ricerca piuttosto avanzato che studia le aree verdi e come queste sono integrate nelle città. 

Descrivici la tua giornata tipo.


Arrivo a Scienze motorie verso le otto o otto e mezza, ho un ufficio che condivido con altri colleghi che svolgono il dottorato. Durante questo primo anno ho svolto attività prettamente da scrivania, davanti al computer che, devo ammetterlo, non è la mia attività preferita. Poi però, nel tardo pomeriggio, vado a lavorare in piscina. Un’attività che ho voluto mantenere pur facendo il dottorato, poiché mi permette di “staccare” veramente a fine giornata. Poi, avendo fatto nuoto per tanti anni, ho sempre apprezzato il fatto di poter trasmettere quello che ho fatto io in passato a qualcun altro. 

Le mie giornate sono piuttosto monotone ma questa è l’impostazione che ho. Per una persona abituata a muoversi tanto, dover stare alla scrivania a volte può risultare pesante ma mi sta aiutando tantissimo il fatto di condividere un ufficio con altre persone che stanno facendo il mio stesso percorso e quindi incontrano le tue stesse difficoltà. Si vive tutto assieme e questo aiuta moltissimo perché si condivide tutto: dai momenti più complessi ai piccoli successi che possono arrivare. 

Quale motivazione e consiglio daresti a chi vuole specializzarsi proseguendo con un dottorato o altri percorsi?

Io tra magistrale e dottorato ho fatto un master perché mi serviva un po’ per completare gli ultimi pezzi del puzzle per poi tentare un approccio al dottorato. Secondo me, alla base del fare ricerca ci deve essere sempre tanta curiosità, soprattutto nei periodi più “demotivanti”, che ci sono sempre. Ne ho passati tanti anche in questo primo anno di dottorato. Soprattutto nei primi anni di studio, si è troppo assillati dall’idea di essere eccellenti e doversi laureare in corso; infatti, mi sto rendendo conto ora che bisogna anche imparare ad accogliere e accettare i fallimenti, non possiamo essere sempre perfetti, solo che a volte a furia di rincorrere quell’eccellenza ci dimentichiamo che possiamo anche sbagliare. 

Sicuramente i periodi di crisi e di difficoltà arrivano per tutti: fa sempre bene secondo me tornare alle origini e pensare perché si è fatta una determinata scelta. Anche nei periodi più difficili cerco sempre di ricordarmi e pensare perché sto facendo questo, che cosa mi ha portato a questa scelta e mi focalizzo sulle cose che più mi piacciono di questo percorso e poi da lì cerco di trovare le energie per affrontare anche le parti più complesse. 

Veronica Ceradini, da Scienze motorie al Coni passando per la Nazionale di rugby

Veronica Ceradini ha un passato da studentessa di Scienze motorie all’Università di Verona e oggi è segretario regionale per il Coni a Bolzano. Prima dell’esperienza istituzionale, Veronica si è distinta per la sua carriera da rugbista che l’ha portata a vestire anche la tanto sognata maglia azzurra della Nazionale.

Ciao Veronica, parlaci un po’ di te…

Io vivo a Verona ma lavoro a Bolzano, sono segretario regionale per il Coni. Per lavoro mi sono dovuta spostare un po’ per l’Italia, da Verona a Padova, da Brescia a Mantova e poi a Bolzano; si può dire che ho girato abbastanza. A volte doversi muovere in continuazione mi pesa, ma credo che sia anche una delle maggiori opportunità di crescita perché tutto quello che è viaggio è sempre da accogliere in maniera positiva.
Sono stata giocatrice di rugby, ora invece di tennis. Sono convinta che, come nel lavoro, anche nello sport il cambiamento sia positivo.
Il mio percorso è partito con alcuni progetti sportivi quando ero a scuola ed è poi continuato con la laurea e il master all’Università di Verona. Un percorso che alla fine mi ha portato, un po’ per caso, a sedermi dietro una scrivania.

Praticare sport aiuta anche nel lavoro?

Sicuramente lo sport aiuta nei momenti difficili. Mi spiego meglio: lo stare in campo, qualsiasi sport tu faccia, ti abitua a una pressione. Qualcuno indica questa pressione come un privilegio ed è molto simile in campo quanto nella vita, nel lavoro, nello studio. La ricerca di quella pressione, che per gli sportivi è abbastanza normale, ti porta poi a migliorare sempre in tutti gli ambiti della vita. Non ti senti mai arrivato, ti senti sempre in tensione verso qualcosa di meglio. Quindi sì, lo sport influenza tantissimo gli altri ambiti.

Hai raggiunto anche risultati sportivi notevoli, parlacene un po’.

Sì, a casa ho qualche medaglia ma anche qualche maglia, di recente ne ho anche messa una in cornice. Sono stata fortunata ad avere avuto la possibilità di giocare in una squadra di alto livello a Venezia: un’esperienza impegnativa perché, come tutte le cose belle, richiede anche lavoro, ma sono stata ripagata dalla fortuna di aver vinto qualche campionato. Non sono mancate, certo, le difficoltà: ho dovuto superare un infortunio e tornare poi in campo, cercando di mantenere sempre uno spirito positivo con un occhio al mio grande obiettivo, cioè la maglia azzurra. Sono stata selezionata dalla Nazionale Italiana femminile di rugby nel 2004 per la prima volta e l’ho vissuta per l’ultima nel 2008, nella storica vittoria contro la Scozia al Sei Nazioni.

Come è stata la tua esperienza universitaria?

L’esperienza al liceo non mi era piaciuta tanto, mentre all’università ho trovato il mio ambiente. Noi a Scienze motorie eravamo un gruppo piccolo, quindi c’era anche tanto rapporto di convivenza tra compagni di corso. Con l’obbligo di presenza stavamo in università praticamente dalla mattina alla sera, era quindi importante organizzarsi per poter studiare. Questo vivere tutti insieme è stato un fattore molto positivo. Ricordo gli anni di studio come un bellissimo periodo, di crescita forte sia dal punto di vista organizzativo personale, sia dal punto di vista della conoscenza. Ho incontrato compagni di corso che lavorano oggi per realtà importanti, persone con obiettivi molto ambiziosi. Inoltre, l’università ci ha sempre messo a disposizione tutto il necessario per fare attività sportiva: spazi, palestre e strumentazioni tecniche.

Come mai questo percorso di studi?

Mi è sempre piaciuto lo sport, ne ho sempre praticato, di qualsiasi genere. Uno dei motivi che mi ha portato alla scelta del corso di laurea è stato sicuramente un insegnante delle medie che ho avuto. Aveva una passione pazzesca per l’insegnamento ai ragazzi e nel trasmettere la volontà di fare movimento, non tanto per diventare campioni, ma per portare chiunque a essere una persona attiva con un obiettivo e un impegno fisso da rispettare, seguendo la routine tipica di qualsiasi sport.

E perché proprio il rugby?

Sicuramente per un motivo di vicinanza. Infatti, a casa mia, San Pietro in Cariano, c’è una società storica di rugby. L’occasione è stata quella di un corso di rugby a scuola dove ho provato questo sport per la prima volta. Lo stesso pomeriggio andai al campo dove incontrai un allenatore sudafricano che all’epoca lavorava per quella società e mi affascinò il modo che aveva di gestire le persone in campo, di farle crescere, di insegnare. Così sono rimasta, ho fatto la mia prima stagione e poi ho preso il via.

C’è un aspetto del rugby che torna utile anche nella vita quotidiana?

Lo sport in genere ha questo fil rouge, cioè l’impegno per il conseguimento di un obiettivo. Nel rugby questo aspetto si manifesta nell’immediato perché ti fa collaborare con gli altri per andare avanti con la palla. È fondamentale essere a disposizione degli altri per andare nella stessa direzione, e questa penso sia un delle cose più belle. L’altro aspetto è sicuramente l’essere disposti al sacrificio per un fine: io scelgo di non avanzare più per permettere a te di andare avanti. Il rugby, da questo punto di vista, è un po’ una scuola di vita, nel senso che spesso nel mondo attuale si è concentrati più su sé stessi che sulla collettività. Accettare di perdere in prima persona qualcosa affinché la squadra guadagni è uno degli insegnamenti più profondi che ti porti via dal campo.

Come vedi il panorama rugbistico italiano?

Negli ultimi dieci anni questo sport ha avuto un boom di visibilità pazzesco in Italia, grazie alla trasmissione delle partite e agli investimenti fatti sulla comunicazione. Non a caso, adesso vedo una buona apertura. Quando uno sport è mediaticamente molto esposto coinvolge un pubblico sempre più vasto ed è qui che possono nascere potenziali nuovi giocatori.
Sicuramente è una disciplina “dura” e che “non perdona tanto”, bisogna essere preparati per andare in campo ma, allo stesso tempo, non servono particolari doti fisiche perché ci sono diversi ruoli che richiedono caratteristiche differenti. Insomma, tutti possono ritagliarsi il proprio spazio e credo che in futuro il rugby sarà praticato sempre di più. Anche a livello universitario ci sono le opportunità per affacciarsi a questo sport: ho vissuto un’esperienza da giocatrice e da allenatrice anche con il CUS di Verona e devo dire che partecipare a competizioni come i Campionati Nazionali Universitari (CNU) rappresenta un’esperienza pazzesca.

Il momento più emozionante della tua carriera sportiva?

Il mio primo inno nazionale. Ricordo che volevo cantare ma la voce non mi usciva per via dell’emozione. A livello personale è un punto di arrivo ma anche di partenza: quello che hai fatto rimane alle spalle, il contesto internazionale è tutt’altra cosa.

Cosa consigli a chi studia e pratica sport?

Penso che la cosa che può aiutare di più sia la passione. Nel momento in cui scegli una cosa che ti piace, la fatica non la senti. Quello che mi sento di consigliare è di non mollare mai lo sport. Ovviamente lo studio viene prima, ma l’attività fisica aiuta tantissimo soprattutto a livello organizzativo perché ti dà dei ritmi e dei tempi da rispettare. Nel momento in cui stai studiando, lo sport è anche una valvola di sfogo per la pressione e un aiuto nella sua gestione.

Anche in prossimità degli esami, che sono dei veri e propri traguardi, serve arrivare preparati e lo scoglio più difficile è presentarsi e riuscire a gestire la pressione che si avverte. In questo lo sport sicuramente aiuta: organizzazione e pressione diventano più gestibili se sei abituato a gestirli quotidianamente.

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